Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Primo maggio

Lavorare in comunità è duro, resto perché vedo le persone cambiare

di Ilaria Dioguardi

Stipendi bassi, alto turnover, molto stress, qualche rischio. «Ma chi sceglie di restare a fare questo lavoro è perché sono più le soddisfazioni delle frustrazioni». Milena Andriulli, psicologa, racconta la sua storia di educatrice nella comunità terapeutica L’Ancora di Ravenna

Milena Andriulli ha 33 anni, è psicologa, da poco più di un anno lavora come educatrice nella comunità terapeutica L’Ancora di Ravenna. «La gratificazione più grande è vedere le persone che ce la fanno. Il lavoro di équipe è fondamentale».

Andriulli, di cosa si occupa nella comunità?

Seguo i ragazzi nella gestione delle attività della giornata: dalla cucina alle pulizie alla lavanderia. Se un utente non sta bene, vuole andare via, me ne occupo io. Poi, rispetto agli utenti di cui sono educatrice di riferimento, faccio un progetto individualizzato e li aiuto a risolvere questioni tecniche, ad esempio se un ragazzo deve riprendere la patente o rinnovare la tessera sanitaria. Seguo anche i colloqui terapeutici con queste persone. Inoltre, porto avanti dei gruppi terapeutici e mi occupo di attività ludiche.

Che attività ludiche fate?

Ergoterapia, musicoterapia, cineforum. Facendo anche turni di notte, mi occupo anche della gestione del turno notturno, come la somministrazione delle terapie.

Fare i turni di notte è faticoso?

Lo stipendio non racchiude la reale fatica, il vero impegno di un lavoro come il mio. Basti pensare alle notti, che sono passive. Le sei ore notturne non vengono conteggiate nel monte ore del mese e vengono pagate come reperibilità in sede, 25 euro per sei ore. Sono una psicologa, mi sono adattata a fare un lavoro che non è proprio il mio, è sottopagato rispetto ai miei studi, ma mi appassiona.

Quali sono le difficoltà di un lavoro da educatrice in una comunità terapeutica?

Il livello di stress è molto alto. In comunità ci sono tante situazioni che creano momenti di stress, di crisi, che possono non far stare completamente tranquilla. Le notti le faccio da più di un anno, ma sono una donna trentenne in una comunità con venti uomini con problemi di tossicodipendenza: è chiaro quali sono i rischi, a fronte di una retribuzione che parla da sola.


Scegli la rivista
dell’innovazione sociale



Sostieni VITA e aiuta a
supportare la nostra missione


Chi sono gli utenti della vostra comunità?

Sono venti maggiorenni, di sesso maschile, la fascia d’età più presente è dai 35 ai 50 anni. in questo momento il più giovane ha 24 anni, il più grande è over-60. Con alcune persone siamo in contatto con i familiari, dove le famiglie sono delle risorse questo rappresenta un punto a favore nel lavoro che c’è da fare.

In che percentuale gli utenti hanno anche problemi psichiatrici?

È difficile fare la distinzione tra persone con problemi di dipendenza da sostanze e persone con problemi psichiatrici, è molto comune che le persone che soffrono di problemi di tossicodipendenza abbiano anche problemi di disagio mentale. Non esiste quasi più il tossicodipendente e basta, dovrebbero esistere quasi esclusivamente comunità con “doppia diagnosi”.

Anche nella vostra comunità c’è difficoltà nel reperire gli operatori?

Lavoro da poco più di un anno in questa comunità, c’è un grande turnover. Se va via una persona, è molto difficile reperirne un’altra in tempi brevi, questo “a cascata” si ripercuote sugli altri educatori: dobbiamo coprire più turni, siamo meno persone in ogni turno. Diventa tutto più complicato.

Perché le piace fare questo lavoro?

Nel mio lavoro, di positivo c’è tanto. Chi sceglie di restare a fare questo lavoro è perché sono più le soddisfazioni delle frustrazioni. C’è la gratificazione di vedere delle persone che fanno cambiamenti, grandi e piccoli che siano, dei miglioramenti di vita. C’è il bello di poter lavorare in un ambito così delicato e pressante allo stesso tempo, quando si lavora con il “materiale umano” si mettono in gioco delle parti di sé: può essere complicato, ma se l’équipe funziona è una grande risorsa.

Quanto è importante il lavoro di squadra, nella sua professione?

Il lavoro di squadra è fondamentale, sai su chi appoggiarti, non ti senti mai solo. Il fatto di avere un’équipe con cui confrontarsi e con cui ci si trova bene fa la differenza. Se non ci fosse quella, i problemi sarebbero sicuramente più difficili da sopportare. Poi c’è la relazione con gli utenti che molte volte è soddisfacente: è il nutrimento di chi come me ha scelto di fare un lavoro che ha a che fare con le persone.

Questo lavoro è stata una scelta?

Io sono una psicologa, quindi avevo scelto di lavorare con le persone, poi scegliere di lavorare come educatrice in una comunità per tossicodipendenti è capitato. La gratificazione più grande è vedere le persone che ce la fanno e che riescono a ripristinare uno stile di vita più adeguato rispetto a prima. I percorsi che ho visto concludersi, in poco più di un anno, non so dire se sono veramente “conclusi”, è troppo poco il tempo per dire che le persone che ho seguito sono uscite dalla tossicodipendenza definitivamente. Ma anche quando gli utenti tornano, è importante essere per loro un punto di riferimento, sanno che possono rivolgersi a noi se hanno bisogno.

Abbiamo dedicato un’inchiesta al consumo di sostanze, in particolare da parte dei giovani, nel numero di VITA magazine “Droga, apriamo gli occhi”. Se sei abbonata o abbonato a VITA puoi leggerlo subito da qui. E grazie per il supporto che ci dai. Se vuoi leggere il magazine, ricevere i prossimi numeri e accedere a contenuti e funzionalità dedicate, abbonati qui.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA