«Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». L'eco delle parole di Papa Francesco, pronunciate il 27 marzo, nel silenzio di Piazza San Pietro, ritorna giorno dopo giorno. Ci interroga sul tempo delle scelte che saremo chiamati a compiere e sul tempo di quella che la Pontificia Accademia per la Vita, in una nota molto importante presentata tre giorni dopo, ha chiamato: la fraternità universale.
Monsignor Vincenzo Paglia, che della Pontificia Accademia per la Vita è Presidente, spiega che un'emergenza come quella del Covid-19 non si può superare se, ai mezzi tecnici, non affianchiamo una visione che tenga al centro il bene comune. La scienza, spiega Monsignor Paglia, « è chiamata ad allearsi con la solidarietà e l’umanità. Viviamo in tempi in cui nessun governo, nessuna società, nessun tipo di comunità scientifica, devono considerarsi autoreferenziali». Il tempo delle scelte, «il tempo del nostro giudizio», è il tempo di un rinnovato legame sociale, fondato sulla fraternità.
Pandemia e fraternità universale
Nel documento “Pandemia e fraternità universale” redatto dalla Pontificia Accademia per la Vita, che Lei stesso ha consegnato il 30 marzo a Papa Francesco, si legge che questa crisi ci ha presi alla sprovvista. Ci ha colpiti «nel bel mezzo della nostra euforia tecnologica e manageriale». Un’euforia che, oggi, ha mostrato il proprio lato oscuro: il collasso della governance. Ci troviamo così a vivere «un paradosso che non avremmo mai immaginato: per sopravvivere alla malattia dobbiamo isolarci gli uni dagli altri, ma se dovessimo imparare a vivere isolati gli uni dagli altri non potremmo che renderci conto quanto il vivere con gli altri sia essenziale per la nostra vita»…
In effetti, la pandemia ci ha colti tutti di sorpresa e ha mostrato che quella sicurezza, anche scientifica, nella quale ci eravamo arroccati si è mostrata fragile. Il coronavirus ha messo a nudo la radicale fragilità di tutti e di tutto. L’umanità intera, nella sua arroganza istituzionale – in tutte le sue diverse angolature (politica, economica, finanziaria, scientifica, organizzativa…) – è stata come “schiaffeggiata” da una molecola, che neppure è vivente. L’altissimo livello tecnologico e di pensiero è stato sorpreso da un minuscolo parassita. E tutti noi, dal più grande al più piccolo, dal più potente al più debole, siamo stati improvvisamente “livelati” e impauriti. La nostra sicurezza è crollata, la nostra euforia manageriale e la nostra brama di controllo si sono sgretolate. Ci siamo scoperti fragili. E pieni di paura.
Che lezione possiamo trarne?
La prima grande lezione da apprendere è l’umiltà. Umiltà da parte di tutti: intellettuali e politici, credenti e non credenti, governati e semplici cittadini. Siamo tutti limitati. Siamo, insomma tutti creature bisognose di aiuto, di compagnia, di amore, di sostegno. Guai a sentirci onnipotenti! Certo, dopo il coronavirus è più difficile esserlo. E comunque sarebbe dissennato! Ma dobbiamo stare sempre all’erta. E’ indispensabile che ci mettiamo nella condizione di pensare assieme il futuro, riconoscendoci gli uni bisognosi degli altri.
Si pone oggi il tema dell’oltre. Un tema universale, da sempre, e presente in tutte le culture. Quando abitavamo ancora nelle capanne e nelle palafitte, costruivamo le piramidi e tombe di marmo per i morti! Che tragedia aver esculturato la morte! La morte ci porta sulla “soglia del mistero”. Lo spazio di questa soglia accomuna credenti e non credenti. Gli unici che si tirano fuori sono i non-pensati. Chi pensa non può non pensare alla morte come un passaggio. Questa pandemia è un invito pressante ad alzare lo sguardo da un narcisismo avvilente
Monsignor Vincenzo Paglia
La vulnerabilità, il limite, la fragilità sono condizioni e situazioni che richiamano il grande tema della solidarietà e della humana communitas. Possiamo leggere questo tema come una chiamata alla solidarietà fra saperi, oltre che fra persone?
La solidarietà è la seconda grande lezione da apprendere. Tocchiamo con mano quanto strettamente siamo tutti connessi: anzi, nella nostra esposizione alla vulnerabilità siamo più interdipendenti che non nei nostri apparati di efficienza. Questa congiuntura ha reso ancora più evidente ciò che pure sapevamo, senza farcene adeguatamente carico: nel bene come nel male le conseguenze delle nostre azioni ricadono sempre anche sugli altri. Non ci sono atti individuali senza conseguenze sociali: questo vale per le singole persone, come per le comunità, le società, le popolazioni. Abbiamo scoperto che l’incolumità di ciascuno dipende da quella di tutti. Altro che sovranismo!
Ci stiamo accorgendo che ogni vita è sempre una vita comune, vita in comune con gli altri. Dire, ad esempio, che la mia vita dipende da me è un equivoco dannoso. Sia perché nella realtà non è così. . Noi siamo parte dell’umanità e l’umanità è parte di noi: dobbiamo accettare queste dipendenze e apprezzare la responsabilità che ce ne rende partecipi e protagonisti. Non c’è alcun diritto che non abbia come risvolto un dovere corrispondente: la convivenza umana è un tema etico, non tecnico. Dobbiamo riconoscere, con emozione nuova e profonda, che siamo affidati gli uni agli altri.
Mai come oggi la relazione di cura si presenta come il paradigma fondamentale della nostra umana convivenza. Il mutamento dell’interdipendenza di fatto in solidarietà voluta non è una trasformazione automatica. Sì, direi che dalla solidarietà oggettiva bisogna passare alla solidarietà come scelta. In questo senso mi pare importante sottolineare l’orizzonte della “fraternità universale” come l’indispensabile obiettivo che già da ora dobbiamo prefiggerci.
Senza questo versante umanistico, anche la scienza e la tecnologia si troverebbero spaesati. Da qui il richiamo all’interconnessione dei saperi?
All’incirca dalla metà del secolo scorso, c’è stata una svolta storica prima sconosciuta: l’uomo ha acquisito il potere di distruggere tutto il Creato; penso al pericolo nucleare. La paura ci ha spinti a siglare accordi, anche se sono più o meno rispettati. Successivamente ci siamo resi conto che il collasso climatico mette in pericolo la vita di tutto il pianeta, e la pandemia che stiamo subendo è in parte il frutto avvelenato di tale dissennatezza. Anche in questo caso, la paura ha spinto gli Stati ad un altro accordo, quello di Parigi sul clima (COP21).
Oggi, con le nuove tecnologie emergenti e convergenti possiamo intervenire in maniera radicale sull’umano, sino a modificare il genoma, a togliere la libertà con il possesso dei Big Data. Senza considerare le prospettive di coloro che parlano di post-umano o di trans-umano. Questa pandemia ci fa scoprire che dobbiamo riprendere, con umiltà e con solidarietà planetaria, a pensare e programmare assieme il futuro del pianeta. E’ indispensabile perciò una nuova alleanza tra scienza e umanesimo, tra credenti e uomini di buona volontà. È la nuova frontiera che ci sta davanti.
Una comunità di destino
Qualche giorno fa, un quotidiano della Svizzera italiana titolava in prima pagina: «Il ritorno della spiritualità». L’improvviso irrompere della morte sulla scena ha riaperto la grande questione del senso. Al contrario, alcune tendenze ideologiche a cui accennava, soprattutto il transumanesimo, avevano come primo dogma il superamento della mortalità….
La condizione attuale, che ci viene paradossalmente rappresentata anche dalla pandemia, ci mette a confronto con uno dei grandi tabù della cultura contemporanea, la morte. La morte è stata “esculturata” dalla società contemporanea.
Oggi è tornata, in maniera improvvisa e in modalità sconosciuta. E non c’è dubbio che è una occasione per svegliare le nostre coscienze intorpidite da un benessere egocentrico, narcisista. La morte per malattie polmonari, negli anni passati, era molto presente ma non ci ha mai scandalizzato. Le morti per incidenti stradali sono innumerevoli, ma non ci sconvolgono. E così oltre. Questa volta, un piccolissimo e sconosciuto virus ha fatto emergere la paura della morte in tutti. E per di più ha sconvolto gli animi il fatto di morire senza nessuno accanto, senza il conforto dei sacramenti per chi crede, senza il funerale e neppure il posto nei cimiteri. Come non riflettere su questo? È l’altra faccia del limite. È la voce che dice: non siamo immortali.
Ma come oggi la relazione di cura si presenta come il paradigma fondamentale della nostra umana convivenza. Il mutamento dell’interdipendenza di fatto in solidarietà voluta non è una trasformazione automatica. Ma già abbiamo vari segni di questo passaggio verso azioni responsabili e comportamenti di fraternità.
Pontificia Accademia per la Vita, “Pandemia e fraternità universale”, 30 marzo 2020
Questa condizione è un altro versante della fragilità rivelata dalla pandemia…
È una dimensione che ci pone, in maniera molto più netta e più nitida, il tema dell’oltre. Un tema universale, da sempre, e presente in tutte le culture. Quando abitavamo ancora nelle capanne e nelle palafitte, costruivamo le piramidi e tombe di marmo per i morti! Che tragedia aver esculturato la morte! La morte ci porta sulla “soglia del mistero”. Lo spazio di questa soglia accomuna credenti e non credenti. Gli unici che si tirano fuori sono i non-pensati. Chi pensa non può non pensare alla morte come un passaggio. Questa pandemia è un invito pressante ad alzare lo sguardo da un narcisismo avvilente.
L’opportunità di crescere c’è, perché la domanda sulla morte è stata sepolta dal narcisismo non è stata cancellata. Sono rimasto stupito dalla folla di persone che hanno seguito il Papa che, da solo in Piazza San Pietro, ha fronteggiato la pandemia e Dio stesso. E a vederlo c’erano anche non credenti! Per chi non crede è l’opportunità di non negare quella soglia. Per chi crede è l’opportunità di ascoltare la voce che viene dall’alto anche per il non credente, in sua compagnia. Dio parla a tutti anche attraverso di noi. Non si crede mai solo per se stessi.
Entrambi, credente e non credente, stanno però sulla stessa soglia…
Per questo sostengo e mi auguro che l’umanesimo che vogliamo promuovere per quello che ci aspetta sia un umanesimo aperto al mistero. Il discorso dell’umanesimo è cruciale: questo vuol dire che tutto l’impegno scientifico, finanziario, economico, politico ed anche religioso deve essere diretto alla realizzazione del sogno di Dio: aiutare tutti i popoli della terra a convivere in pace, rispettando la diversità di ciascuno, ma camminando insieme verso quella fraternità universale che era già dalla creazione il disegno di Dio. Gesù lo ha ripreso e, se possibile, allargato ancora, non solo depurandolo da ogni autoreferenzialità, ma dandoci anche una nuova forza per affrettarlo. Questo sogno era nascosto anche nella ben nota triade: fraternità, libertà e uguaglianza.
L’individualismo è il virus compagno del Coronavirus. L’individualismo distrugge tutto. L’individualismo è la grande eresia della modernità
Monsignor Vincenzo Paglia
Insistiamo su uguaglianza e libertà, ma la fraternità è spesso lasciata in ombra…
La fraternità è la grande promessa mancata della modernità. Ciò nonostante, anche da un punto di vista delle scienze umane, in tutta la loro articolazione, questa promessa mancata è ciò che rende possibile la libertà e l’uguaglianza. Dire “fraternità” non significa, però, dire qualcosa di scontato. “Fraternità” non è una parola vuota. “Fraternità” richiede una grande battaglia, innanzitutto contro il proprio individualismo, contro l’idolatria di se stessi. È la battaglia più difficile da combattere e da vincere. L’individualismo è il virus compagno del Coronavirus. L’individualismo distrugge tutto. L’individualismo è la grande eresia della modernità.
Certo, la affermazione dell’individuo come soggetto di diritti (ed anche di doveri, sebbene qui si debba intervenire meglio), è stata una grande e irrinunciabile conquista della modernità. La sua deregulation ha condotto ad una sorta di dittatura del’io, dell’ego, che non è estranea al fallimento di questo tempo.
Sperare insieme
Nel documento della Pontificia Accademia per la Vita si fa esplicito riferimento alla preghiera di intercessione…
Di fronte a quello che sta accadendo, due grandi segni di speranza ci stanno indicando il domani. Dobbiamo continuare a viverli e a irrobustirli. Il primo segno è la consapevolezza di una nuova solidarietà nei rapporti umani. L’ho già accennato sopra. Deve svilupparsi un nuovo entusiasmo per i legami umani. Hanno una straordinaria forza creativa. E, assieme ai legami umani, dobbiamo dare spazio alla preghiera, alla intercessione per il mondo intero. E’ quel che abbiamo visto fare da papa Francesco. Purtroppo abbiamo ridotto la preghiera a una pratica di pietà, a una devozione, a una moltiplicazione di parole.
La preghiera è innanzitutto un grido di aiuto. Tutti oggi gridano aiuto. C’è una responsabilità dei cristiani di raccogliere l’attuale grido universale di dolore e trasformarlo in preghiera. È il modo per comunicare con i fatti che c’è un Padre che ascolta questo grido. In questo senso la preghiera è parte decisiva del futuro dell’Europa e del mondo, nel senso che i cristiani ne sono come l’anima che porta al Cielo di Dio le angosce e le speranze di tutti. Sono diventato furibondo quando qualcuno ha deciso di chiudere le porte delle chiese. Oggi noi cristiani dobbiamo riscoprire che la preghiera non è solo per noi, è per tutto il mondo. In questo senso, guai a rinchiudersi nell'intimismo devozionalista. La preghiera è parte decisiva della politica. È la grande arma che i cristiani hanno nelle loro mani. Riscoprirla è il primum, la prima opera dei cristiani.
C’è molta rabbia – forse giusta, forse ingiusta, ma certamente comprensibile – che deve essere non solo stemperata, ma guidata verso un altro orizzonte…
La preghiera è grido, è anche richiamare Dio alle sue responsabilità. Pensiamo ai Salmi, che in queste settimane ho commentato. Le assicuro che leggerli in questo tempo è tutta un’altra cosa… La preghiera è una forza che trasforma. E trasforma anzitutto Dio stesso. Non è vero che Dio si comporta comunque, al di là della nostra preghiera. Non è così. La preghiera muove il cuore di Dio ed anche il nostro. Sono più che convinto che i cristiani hanno oggi una responsabilità enorme: presentare a Dio il grido di dolore e quello di speranza degli uomini e delle donne di oggi. Dio ascolta il suo popolo. E noi siamo invitati ad ascoltare le sue parole. Questo dialogo non è a vuoto. Dio si è impegnato ad ascoltarci. E Gesù ha trasformato questo dialogo in un colloquio tra i figli e il padre. E questo rapporto porta sostanza alla preghiera. Dobbiamo riscoprire il valore della preghiera, anche nella sua forza politica, ossia di trasformazione del mondo. Quanti credenti, ad esempio, pregano per la pace o per quello che sta accadendo a Lesbo? In questi giorni ho celebrato una Messa per tutti i morti di questo tempo, che non hanno avuto funerali. Nella preghiera possiamo gridare forte, come fece Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio…».
Chiusi in casa, siamo costretti a confrontarci con una dimensione interiore. Anziché un ripiegamento, questa dimensione dovrebbe aiutarci a far spazio a un rapporto profondo tra noi e gli altri…
La preghiera è sempre dialogo, è sempre apertura all’Altro. La preghiera, come dicevo, è un rapporto diretto con Dio. E ci sono due dimensioni, quella personale e quella comunitaria. Nessuno si salva da solo e Dio non salva nessuno da solo. Dio salva il suo popolo e i cristiani hanno sulle spalle la responsabilità di pregare per la salvezza di coloro che ci sono vicini e di tutti i popoli della terra.
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.