Le due prospettive contraddittorie che animarono il movimento del ’68 – la “critica sociale” e la “critica artistica” al sistema capitalistico – aprirono la strada ad una serie di rivendicazioni di carattere individuale (femminismo, ecologismo, genderismo) determinando lo smarrimento di quelle sociali. Una situazione che ha posto le basi per la successiva conversione delle sinistre al neoliberismo e che ha contribuito all’esplosione dei populismi.
Ne abbiamo parlato con Carlo Formenti, firma di MicroMega, militante della sinistra radicale e autore di numerosissimi saggi su temi politici e sociali e del recente La variante populista (DeriveApprodi, Roma 2017).
Il termine populismo è uno dei più ricorrenti nel dibattito politico attuale. Potrebbe illustrarci la sua evoluzione storica e la fisionomia che sta assumendo oggi?
Descrivere l’evoluzione storica del termine richiederebbe un piccolo trattato di politologia comparata e non sarebbe utile alla comprensione del fenomeno contemporaneo: fra il populismo russo di fine Ottocento, o fra quello americano a cavallo fra il XIX e il XX secolo, e il fenomeno contemporaneo, tanto per fare un esempio, esistono ben pochi elementi di contatto. Né molto più utili appaiono le definizioni “scientifiche” del fenomeno, che risalgono agli anni Sessanta del secolo scorso e si riferiscono ai regimi populisti latino americani della prima metà del Novecento. Gli elenchi caratterizzanti che vennero allora compilati, quali l’opposizione fra popolo (buono) ed élite (cattive), unità mitica (interclassista) del popolo, rapporto diretto fra leader e masse, rifiuto della casta politica e delle istituzioni rappresentative, ecc., servono tutt’al più a definire – per usare le parole di Marco Tarchi – uno “stile” e una “mentalità” populiste.
Quanto all’uso polemico che ne fanno oggi media e partiti tradizionali si smentisce da solo, nel senso che tutti i leader politici, senza distinzione, fanno ricorso a tecniche di comunicazione di tipo populista. Populismo è oggi una definizione generica che si riferisce a un complesso insieme di fenomeni politici e sociali – anche molto diversi fra loro – innescati dalla grande trasformazione dei sistemi economici e politici iniziata negli anni Settanta del secolo scorso e che viene perlopiù etichettata come globalizzazione neoliberista.
Quali sono le cause scatenanti da cui origina l’ondata di populismo che sta attraversando Europa e Stati Uniti?
La causa fondamentale è di carattere socioeconomico: i processi di finanziarizzazione e di internazionalizzazione dell’economia hanno provocato la perdita di milioni di posti di lavoro nei Paesi occidentali, un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi lavoratrici e la perdita di status delle classi medie, un aumento mostruoso delle disuguaglianze con la concentrazione della ricchezza in pochissime mani, una progressiva perdita di fiducia nelle categorie fondanti della cultura moderna (progresso, fiducia nel futuro, ecc.). A questo si è aggiunta la progressiva “conversione” delle sinistre socialdemocratiche al pensiero unico neoliberista (basti pensare a figure come Clinton, Blair, Hollande, Renzi per citare solo alcuni esempi) che hanno privato le classi subalterne della loro rappresentanza politica. Le sinistre rappresentano oggi esclusivamente gli interessi di strati sociali medio alti e acculturati alleati con le élite finanziarie e si impegnano esclusivamente a difendere i diritti individuali e civili di questi strati, ignorando i diritti sociali delle masse impoverite. Ecco perché la rabbia popolare assume spesso connotati “di destra” (cfr. la vittoria di Trump negli Usa o l’esito del referendum inglese sulla Brexit) il che consente alle élite tradizionali di etichettare i movimenti populisti come neofascisti (ignorando il fatto che esistono populismi dichiaratamente di sinistra come Podemos, Sanders, Mélenchon, Corbyn e altri) .
L’attuale momento populista potrebbe essere identificato come l’effetto della post-democrazia?
Alla concentrazione del potere economico in poche mani fa riscontro il progressivo svuotamento degli istituti tradizionali della democrazia rappresentativa, ridotti a camere di compensazione di interessi lobbistici (ciò è ancora più evidente nel caso dell’Unione Europea, dove l’esautoramento dei governi nazionali ha ridotto a puro rituale le elezioni politiche). I cittadini sono consapevoli che le loro scelte elettorali non hanno più alcun peso nel determinare le proprie condizioni di vita per cui tendono a rifiutare in blocco la politica.
I partiti politici sono stati il punto di forza della social democrazia. A cosa è dovuta la loro obsolescenza? E quella del sindacato?
La loro obsolescenza è dovuta all’effetto di destrutturazione che i processi economici descritti in precedenza hanno avuto sulla composizione di classe delle nostre società, innescando processi di individualizzazione/atomizzazione sociale. Partiti e sindacati sono organi di rappresentanza collettiva e, se vengono a mancare i soggetti collettivi da rappresentare, perdono il proprio ruolo. I partiti si convertono in macchine elettorali pigliatutto che ricercano il consenso attraverso strategie comunicative paragonabili a quelle del marketing aziendale. Quanto ai sindacati, si ritrovano impotenti a organizzare una forza lavoro sempre più dispersa e precarizzata. È per questo che, come ho scritto nei miei ultimi lavori, la lotta di classe tende inevitabilmente ad assumere forme populiste, aggregando domande diverse attorno a uno o più obiettivi contingenti che, in certe circostanze, possono svolgere un ruolo egemonico (vedi le analisi del filosofo argentino Ernesto Laclau). Ed ecco perché il populismo non ha connotati ideologici predefinibili: il tema aggregante può avere connotati di sinistra (lotta alla disuguaglianza) o di destra (reazione ai flussi migratori).
Dal suo libro La variante populista emerge che la cultura sessantottina è integrata nel sistema capitalistico. La sinistra, infatti, dopo aver abbandonato la lotta di classe, ha iniziato a rivendicare diritti civili e indentitari come il femminismo, il genderismo, l’ecologismo. A suo avviso tali rivendicazioni risultano strumentali al sistema di potere imperante? Perché?
Esiste ormai un’ampia letteratura sulla integrazione dei cosiddetti nuovi movimenti nel blocco di potere neoliberale. Cito solo tre opere: Il nuovo spirito del capitalismo, di Boltanski e Chiapello, Fortunes of Feminism, di Nancy Fraser e Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, di Jonathan Friedman. Nella prima, gli autori dimostrano come le trasformazioni del modo di produrre e dell’organizzazione aziendale indotte dalle nuove tecnologie digitali abbiano richiesto il superamento delle vecchie gerarchie e dei vecchi metodi autoritari di gestione del potere. È nato così un capitalismo “gauchiste” (che ha la sua massima espressione in alcuni giganti del Web come Google) che ha assunto i valori sessantottini a canone etico della cosiddetta “classe creativa”. La Fraser ha invece dimostrato come il femminismo mainstream, che ha abbandonato le velleità anticapitaliste del femminismo della differenza e si concentra esclusivamente sulle pari opportunità di carriera e di reddito, sia oggi fedele alleato di una società capitalista che si fonda sui valori dell’individualismo e della meritocrazia. Quanto al gender, le stesse femministe storiche hanno evidenziato come il genderismo teorizzi una neutralizzazione della differenza sessuale che è funzionale al dominio di un capitale che ha da tempo abbandonato come un obsoleto retaggio del passato il patriarcato. Infine, Friedman descrive con efficacia come la neolingua del politicamente corretto incarni oggi il canone morale di un dominio totalitario delle élite occidentali, un canone che giustifica le guerre “umanitarie” contro le culture diverse per imporre i valori della “democrazia” e dei diritti civili, e che alimenta l’odio delle “sinistre” progressiste contro il popolo rozzo e politicamente scorretto.
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