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Citt

Gabriele Basilico: "Guardiamo agli agglomerati urbani come fossero organismi fuori controllo. Non è così. Hanno una loro grande bellezza".

di Giuseppe Frangi

Tutto è città. Ma che cosa resta della città? Il paesaggio umano di questo inizio di terzo millennio è segnato dalla formidabile forza totalizzatrice delle metropoli, dalla loro energia prevaricante che intacca tutto il territorio circostante, sino a chiudere ogni pausa, sino a farne un continuum. ?Città infinita? l?ha ribattezzata con una formula efficace e fortunata Aldo Bonomi. Ma si può vivere in città così, brutte per vocazione, disumane per destino? Sì. Si può vivere. Perché la città resta, con tutte le sue mancanze, con tutto il suo carico di cinismo, il teatro necessario ma anche prediletto dell?umano. Ne è assolutamente convinto Gabriele Basilico, fotografo, 60 anni, milanese. Tre categorie cui prestare bene attenzione: come fotografo è uno dei più grandi di oggi, forse il più accreditato al mondo per le fotografie di architettura e di città. Come sessantenne, ha vissuto la trasformazione della città, il suo crescere incontrollato e il suo ingarbugliare strade, memorie e identità. Come milanese, ha assistito all?espandersi della piccola metropoli. Che è restata piccola ma sembra aver inghiottito tutto quello che le stava attorno. Insomma, che ne è della città? Vita: Basilico, si vede da subito che lei ama le città. Che cosa gliele fa amare? Gabriele Basilico: Lo ammetto. Sono molto felice perché sento una sorta di missione a registrare le modificazioni dentro una città. Mi sento come un medico: mi interessa leggere il suo tessuto, capire come potrà essere il suo futuro. Lo faccio con una profondità superiore alla media solo perché ho un occhio molto esercitato a guardare le cose. Colgo anche le differenze tra una città e l?altra, anche se oggettivamente queste differenze sfumano sempre di più. Il mondo delle città tende a uniformarsi. Vita: Le tipicità spariscono? Basilico: Sì. Quando la città si espande si occidentalizza. Prendete il caso emblematico di quello che sta accadendo Cina. Ma questo non lo considero un limite. In una città ciascuno cerca subito qualcosa che gli è familiare. Se non accade è difficile stabilire un rapporto, entrarci, tanto meno starci. Mi ricordo che durante un viaggio in Thailandia non riuscii a fare una fotografia, perché mi sembrava di avere davanti architetture senza una forma, ma con pelle mobile sulla struttura. Vedevo solo un moltiplicarsi di decorazioni che per me non avevano senso. Era un luogo che non potevo fotografare e in cui difficilmente avrei potuto pensare di vivere. Gianni Celati dice che la nostra solitudine ci porta nei luoghi a cercare un po? di familiarità. Si ha sempre bisogno di trovare degli elementi di riferimento. Così quando giro con la macchina fotografica cerco di configurare nello spazio delle cose che ho già visto. E se un luogo accetta questa sovrapposizione, allora la fotografia è possibile. Il nostro bisogno è quello di partecipare, di non sentirsi stranieri. Vita: Come non sentirsi stranieri nelle città di oggi? Basilico: Non sono buono a distribuire consigli o a elaborare teorie. Per cui ti racconto il mio metodo. Quando arrivo in uno spazio nuovo, mi sento come un cane. Sono agitato e spaesato. Non so che cosa mi aspetta, apparentemente penso che quei luoghi possano essere anche ostili. E io sto guardingo. È un momento magico ma difficilissimo. Si crea una situazione di tensione in cui ho bisogno di sapere ma soprattutto di guardare, per fare in modo che questo posto diventi una parte di me. E quando inizio a fare una strada in modo automatico è il primo segnale che io sono ?dentro? quel luogo. E questo mi aiuta. Ho bisogno di appartenenza, un?appartenenza che si genera dall?esperienza e dalla familiarità con degli spazi. Così, per tornare al mio metodo, mi metto a girare facendo dei movimenti estenuanti. Poco alla volta fisso delle idee, degli spazi. Poi sento che è il momento di prendere il bisturi: bisogna affondare, cioè iniziare a fotografare. Faccio una metabolizzazione del tessuto urbano. Con questa sorta di bulimia io ingoio pezzi di città. E, perdonami il neologismo, li ?basilichizzo?. Vita: E i conti con il brutto delle città? Basilico: Non faccio nessun artificio per camuffarlo. Ma non voglio neppure giudicare: per questo cerco di restare equidistante. Mi hanno anche accusato in questo modo di salvare e giustificare le parti brutte della città. Questo all?inizio mi faceva problema. Oggi non più, perché per capire veramente dove viviamo bisogna guardare con un po? di distanza. Che mi trovi davanti a un edificio di Le Corbusier o in una periferia squallida, non cambio il mio atteggiamento. Certamente la città capitalista spinge verso sponde estreme e non dà più possibilità a sviluppi equilibrati. Ricordo che quando a metà degli anni 80 mi fu chiesto di fotografare Milano per la mostra dedicata agli anni 30, ho visto riemergere un linguaggio urbanistico e architettonico che era stato oscurato dalla pesantezza del fascismo ma che sotto aveva un disegno civile sulla città. Un disegno civile come dopo non ci sarebbe più stato. Tanto meno oggi. Vita: Nella tua fotografia le città sono sempre senza persone. Eppure la loro presenza la si sente. La loro vita impregna i muri, le case. Forse questa sensazione riscatta anche il senso di bruttezza. Aiuta da andare oltre? Non va confusa l?architettura con la sua scala di valori estetici con la dimensione umana. Certamente il meccanismo di scoprire una bellezza che fa parte della normalità mi dà vibrazioni positive. Mi induce a essere indulgente, a non mettere barriere. Questo non assolve l?architettura, ma a volte penso che se il mondo fosse guardato un po? di più, lo troveremmo meno estraneo. Una volta Andrea Branzi mi disse che la mia visione di Milano corrisponde a quel 90% di Milano che i milanesi disdegnano. Invece se la guardassero un po? di più l?amerebbero di più e questo aiuterebbe a pensare la città in modo nuovo. Questo per me è assolutamente vero. Comunque mi piace pensare che possa essere vero per tutti. Vita: Ma l?assenza delle persone come la spieghi? Basilico: Un po? per pigrizia mi nascondo dentro la storia della fotografia, che percorre due direttrici parallele che solo molto di rado si toccano: la direttrice che mette al centro l?uomo e quella che invece costruisce tutto attorno alla percezione dello spazio. Per mettere dei nomi, potremmo dire che da Atget in poi la fotografia ha avuto coscienza della forza espressiva dello spazio, mentre la direttrice dell?uomo ha il suo padre in Cartier Bresson. I fotografi sono sempre stati attirati da questa polarità: o la forma dello spazio o l?identità dell?uomo (e i suoi gesti visto che da un certo anno in poi la tecnica lo ha consentito). Ecco, io dentro questo schema di massima in cui si può riassumere la storia della fotografia, do preferenza allo spazio. Ma lo spazio mi sembra una grande rappresentazione dell?umanità. La città è come un grande corpo che respira, è fisica, è sensuale. A volte mi piacerebbe anche toccarla con le mani, proprio come faceva Vincenzo Silvestri, quando fotografava le sculture di Michelangelo. Ogni volta era molto preoccupato, perché era sicuro che la differenza di piani che Michelangelo aveva messo nella muscolatura lui non la ?vedeva?. E senza ?vederla? non gli era possibile fotografarla. Allora chiudeva gli occhi e toccava le statue. Anch?io vorrei toccare le città. Vita: Ma la città che esce dalle tue fotografie è una città vera o una città miracolata dalla tua sensibilità? Basilico: Quando mi chiedono quale sia la mia professione, io spiego che sono un misuratore degli spazi. Cerco dei punti verso cui lanciare delle freccioline. E se colpisco l?anima di questi spazi, loro mi rilanciano queste freccioline. Quando all?interno di una città catturi questo punto di vista ottimale, capisci che c?è un ordine, c?è una bellezza, che spesso ci sono negate dal fatto che il nostro sguardo abitualmente si muove nel raggio di pochi metri, è prigioniero di un orizzonte che preclude l?ampiezza. Si è sopraffatti dalla confusione che ci circonda e della quale gli architetti hanno grandi responsabilità. Ma se attraverso la fotografia si rimette ordine nello spazio, ecco che la città ridiventa visibile. Spesso il tentativo di mettere ordine è faticoso, ma la vocazione a mettere ordine nello spazio la considero un po? come una missione. Vita: Quindi non c?è nulla da inventare… Basilico: Io non penso mai di inventare nulla. Sono fedele alla definizione di Walker Evans di una fotografia di stile documentario. Una fotografia che documenti il reale. In questa visione fortemente rispettosa della realtà naturalmente giocano anche i piccoli spostamenti, una distanza maggiore, i colpi di luce: tutti strumenti che danno luogo a vibrazioni inedite. Credo sia una forma di dialettica tra il visibile e l?invisibile: chi guarda ha la percezione di un qualcosa che non aveva mai visto anche se prima era davanti a lui. Quindi non invento nulla. Vita: Tu hai fotografato anche una città devastata dalla guerra come Beirut. Immagino che lì sia stato un po? difficile recuperare quell?ordine… Basilico: Eppure mi è accaduto anche lì. Ricordo che quando arrivai fui spiazzato da quello che avevo davanti. Dissi allo scrittore libanese che mi accompagnava che quel che avrei potuto fare era una documentazione fotografica di una città distrutta, cioè di una città morta. Lui capì il mio problema e mi invitò a salire all?ultimo piano dell?Hotel Hilton, ridotto in macerie. Ricordo che ci facemmo 18 piani di scale a piedi. Arrivati in cima mi disse di guardare: dal punto di vista architettonico avevo davanti montagne di macerie, una sorta di ground zero. Ma se guardavo più in fondo vedevo il formicolio della città che viveva. Là in fondo Beirut sembrava Napoli o Palermo. Così mi resi conto che dovevo fotografare non un città morta ma una città ferita. Vita: Un?ultima domanda: se ti toccasse fotografare un angolo incontaminato d?Italia, che cosa le restituirebbero quelle freccioline che tu dici di lanciare agli spazi? Basilico: Ho sempre il timore degli spazi conservati sotto naftalina. Ne ricevo immediatamente una sensazione di falso. è una sensazione molto soggettiva, lo ammetto. Io mi sono abituato a fotografare tutto quello che ho davanti, auto comprese. Non ripulisco le mie scene. E in un centro medioevale trovo le deturpazioni molto più evidenti, perché basta un niente per stonare. Ma forse questo è spia di un impaccio più profondo: nelle città c?è la vita, e la fotografia per essere ha bisogno della vita. Paesaggi urbani (e umani). L?arte di Gabriele Basilico ? Gabriele Basilico (Milano, 1944), architetto, è uno dei fotografi noti a livello internazionale per le sue ricerche sul paesaggio urbano. Sono decine i suoi libri fotografici: il prossimo è Scattered City, (Baldini Dalai). È uno sguardo complessivo sulle città del terzo millennio. ? Le parole che cambiano. La nuova serie di interviste di Vita è arrivata alla terza puntata. Dopo la parola Welfare (con Tito Boeri) ed Etica (con Pierangelo Sequeri) settimana prossima sarà la volta di Democrazia, con un?intervista a Mauro Magatti.


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