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30 anni legge Basaglia: le luci e le ombre

Peppe Dell'Acqua, direttore del DSM di Trieste, sul suo sito traccia un bilancio di questi 30 anni

di Redazione

Era il 1968 quando il governo di centro sinistra sulla spinta delle prime aperture dei manicomi a Gorizia, Perugia e Materdomini (SA) metteva mano alla legge del 1904 sui “frenocomi e gli alienati” e introduceva il ricovero volontario, creava un’alternativa alla pesantezza dell’internamento coatto e alla sottrazione dei diritti civili. Avviava un processo di radicale cambiamento che si concluderà dieci anni dopo, con la legge 180. In quegli anni nel campo della salute mentale si sono prodotte accelerazioni, innovazioni, cambiamenti inconfrontabili col resto degli altri paesi occidentali. Cambiamenti che cominciavano a restituire possibilità. Possibilità di restare cittadini, di essere titolari dei propri diritti, di avere la speranza di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire. La legge 180 non ha fatto altro che questo. Il legislatore si è chiesto se anche per gli internati, i malati di mente, dovesse valere l’articolo 32 della Costituzione: “…diritto alla cura e alla salute nel rispetto della libertà e della dignità…” e ha risposto che sì.
Da allora non più lo Stato che costringe alla cura, che interna, che interdice per difendere l’ordine e la morale; non più il malato di mente “pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”, ma una persona bisognosa di cure. A partire da quegli anni siamo stati in grado di vedere e ascoltare le persone che vivono il dolore della mente in quanto persone e non diagnosi, malattie, oggetti.

Ma proviamo a fare il punto della situazione. Dati raccolti negli ultimi sei anni dall’Istituto Superiore della Sanità confermano clamorosamente il percorso di cambiamento avviato nel ’78: le strutture per la salute mentale sono diffuse, ovunque sono presenti servizi ospedalieri per acuti e strutture residenziali. Questa rete di servizi si è sviluppata assieme alle associazioni di persone che hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale, che rivendicano la propria storia, che ci raccontano le loro svolte, che ci dicono come è possibile vivere malgrado la malattia; associazioni di familiari che fino all’altro ieri erano condannati alla vergogna, all’isolamento, a sentirsi colpevoli della malattia o di presunte relazioni malate covate all’interno della famiglia. Nuove figure sono entrate sulla scena, ora risorse e incredibili opportunità per tessere reti, strategie, alleanze. Tanto che il campo del lavoro terapeutico è realmente cambiato.

Pensando alla grande esplosione italiana della cooperazione sociale impossibile non vedere le infinite opportunità che, proprio a partire dai manicomi, si sono offerte alle persone con disturbo mentale per formarsi, entrare nel mondo del lavoro, riprendere un ruolo sociale e familiare. In 30 anni sono nati e cresciuti i servizi ospedalieri per il ricovero degli acuti (circa 280 per quasi 4.000 posti letto), è rimasto invariato il numero delle strutture convenzionate (55 cliniche per circa 4.800 posti letto) che si occupano di persone con patologie meno severe. Sono circa 20.000 i posti nelle strutture residenziali di varie dimensioni, qualità degli ambienti e intensità di programmi riabilitativi. Infine un Centro di salute mentale (CSM) ogni 80.000 abitanti è presente nel territorio con orari di apertura e modalità di lavoro e programmi diversi da Regione a Regione.

Tuttavia, per quanto sviluppati e presenti i servizi di salute mentale rispondono ancora con difficoltà, e in alcuni casi veramente male, alle domande di sostegno e di guarigione che i cittadini ormai consapevoli fanno. La mancata risposta, quando accade, è dovuta all’estrema fragilità di programmi e risorse investite nei CSM che dovrebbero rappresentare, funzionando sulle 24 ore (solo 50 in Italia operano così), il punto di ascolto, di elaborazione, di presa in carico e di continuità del lavoro terapeutico. Tutto il sistema, invece, conta sui luoghi di ricovero (per gli acuti), sui luoghi di lunga ospitalità (residenze, per i cronici) a conferma di un modo di operare che poco si discosta dal modello medico ospedaliero. E questo anche per la mancata trasformazione culturale non dei cittadini, ma della psichiatria che con fatica si dispone a diventare “salute mentale nella comunità”. Salvo alcune eccellenti eccezioni (Verona, per esempio), le Università poco hanno fatto per promuovere ricerca e formazione nel senso del cambiamento avviato 30 anni fa.

C’è ancora, così, chi propone che il Governo modifichi la legge 180, sopravvissuta in questi 30 anni a ben 29 proposte di cambiamento. È con le Regioni e le amministrazioni locali che il Governo deve intervenire, formulando standard, livelli essenziali e, nel caso, commissariando. Mettere mano alla legge 180 significa soltanto ridurre diritti, libertà e possibilità. Ha scritto Susan Sontag: “La malattia è il lato più oscuro della vita, una cittadinanza gravosa. Tutti noi abbiamo una doppia cittadinanza: nel regno dei sani ma anche nel regno dei malati. E anche se tutti preferiremmo usare il passaporto buono, prima o poi ognuno è costretto a diventare, almeno per un poco, cittadino dell’altro regno”. La malattia mentale costringeva al solo passaporto cattivo. La 180 ha restituito a tutti la possibilità di usare il passaporto buono.

Articolo di Giuseppe Dell’Acqua, direttore del DSM di Trieste, apparso sul sito www.triestesalutementale.it


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