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Ecco le carceri galleggianti

Nell'immagine il modellino di Fincantieri

di Redazione

Trecentoventi cabine di 16 metri quadrati per due persone, con aria condizionata, angolo cottura e bagno: sono le celle per i detenuti nelle carceri galleggianti proposte da Fincantieri al ministero della Giustizia.

Un progetto che provoca pareri favorevoli, critiche e polemiche e trova l’accoglienza più fredda proprio a Genova, città generalmente considerata tra quelle deputate a costruire le navi-carcere e a ospitarle. Le strutture galleggianti erano una delle ipotesi inserite nel piano per le carceri presentato nel maggio scorso al Guardasigilli Angelino Alfano da Franco Ionta, direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap).

Il documento ipotizza un piano di edilizia penitenziaria che permetta un incremento complessivo dei posti tale da rispondere alle esigenze dei 66 mila detenuti oggi costretti a vivere in strutture in grado di ospitare in tutto 42 mila persone. Una parte di questi nuovi posti potrebbero garantire in tempi brevi appunto le navi prigione. «All’ipotesi è dedicata una riga in tutto il piano», sottolinea l’ufficio stampa del Dipartimento, che non intende parlare del progetto. Comunque, anche se espressa in maniera così sintetica, l’idea deve essere piaciuta al ministro perché, su precisa richiesta del governo, Fincantieri si è subito messa al lavoro per presentare delle soluzioni. La nave-tipo ipotizzata dal gruppo cantieristico è in pratica una chiatta, lunga 126 metri, larga 33 e alta 34,8, dimensioni che possono essere espanse grazie alla modularità del progetto. Nelle 320 celle sono ospitate 640 persone. Le aree accessorie per detenuti (aule didattiche, laboratori, officine) si dispongono su una superficie di 5.000 metri quadri, ai quali si aggiungono i 3.900 metri di uffici, aree colloqui, infermeria, sala polifunzionale e direzione. Duemilasettecento metri sono di aree esterne. La cubatura è di 83 mila metri cubi. La piattaforma è progettata per restare permanentemente ormeggiata a una banchina in un’area protetta dai flutti, in aree portuali, industriali, arsenali militari o tratti di costa non sfruttabili commercialmente o turisticamente. Il posizionamento a ridosso di una banchina rende l’accessibilità alla struttura galleggiante del tutto equivalente a quella di un carcere a terra. Un “cordone ombelicale” che collega la piattaforma alla banchina consente il funzionamento della struttura senza la necessità di installare a bordo impianti particolarmente costosi e delicati. La manutenzione e la gestione tecnica della piattaforma verrebbero quindi ad avere gli stessi costi di un carcere a terra. Anzi, le tecnologie collegate all’acciaio potrebbero addirittura facilitare l’operatività della struttura. Il modello a corpo triplo con una rotonda centrale garantisce la sicurezza dei detenuti e degli agenti. La presenza di locali comuni per detenuti (medicheria, barbiere, soggiorno, colloqui con direttore), situati sullo stesso piano di ogni sezione detentiva, consente una gestione più economica degli spostamenti dei detenuti all’interno dell’istituto.

Secondo l’azienda, la soluzione studiata permette di ottenere tempi ridotti di costruzione (da 12 a 24 mesi) e certi: Fincantieri da sempre consegna le sue navi nel giorno e nell’ora concordati con l’armatore, altrimenti pagherebbe una penale. Le chiatte costruite sono rimovibili, trasportabili in altre aree e possono essere destinate anche ad altri usi: per esempio, alla protezione civile. «Abbiamo una competenza a 360 gradi», spiegano a Fincantieri, «sappiamo costruire navi militari, da crociera e traghetti e per questo progetto abbiamo messo a frutto tutta la nostra esperienza, trovando soluzioni che andassero incontro alle nuove esigenze del regime carcerario». Fincantieri non accenna ai costi ma nell’ambiente si parla di una cifra sui 90 milioni di euro. Il progetto porterebbe avrebbe anche il vantaggio di portare lavoro al gruppo, in un momento difficile a causa della recessione globale, che frena gli ordini di nuove navi. «Non c’è dubbio», commenta Mario Ghini, segretario nazionale Uilm e responsabile del settore siderurgico – costruire, come si pensa, cinque o sei di queste piattaforme  saturerebbe gli impianti per due anni. Ci auguriamo che si prenda una decisione nel breve periodo e le navi carcere si facciano. Non capisco chi è contrario, mi sembra che si tratti di pregiudizi ideologici». Tra i contrari c’è il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, che trova la soluzione inadatta sia per chi lavora nel carcere sia per chi è detenuto.

«Mi sembra», spiega, «che una soluzione del genere aumenti l’isolamento per chi lavora nel carcere, complichi le visite dei parenti e offra poco spazio ai detenuti. Questo come ipotesi, non ho ancora visto i progetti specifici. Ma non vorrei che le mie dichiarazioni fossero prese a pretesto per penalizzare Fincantieri. Del resto questo problema non è di competenza del sindaco ma dell’Autorità Portuale». Vincenzi è sostenuta da una maggioranza di centrosinistra, ma è d’accordo con lei il deputato genovese del Pdl Roberto Cassinelli, membro della Commissione giustizia di Montecitorio: «il porto», dichiara, «è una risorsa fondamentale per la città e la costruzione di un istituto di pena al largo finirebbe per creare inevitabili problemi di ogni genere. Si pensi alla difficile gestione anche delle visite ai detenuti o ai disagi che si arrecherebbero al personale penitenziario». Diverse le obiezioni mosse dal presidente dell’Autorità Portuale genovese, Luigi Merlo: «non abbiamo gli spazi, neanche un metro di banchina da sacrificare. Non ho nulla contro il progetto, ma penso sia adatto a porti commerciali dismessi o sottoutilizzati. Ce ne sono diversi in Italia». Alcuni hanno bocciato l’idea sulla base di esperienze negative fatte all’estero. Fallimentare era stato l’esperimento britannico, a Dorset. «Ma», precisano a Fincantieri, «il carcere galleggiante inglese era stato costruito 30 anni fa per altri scopi e poi adattato come soluzione di emergenza. Nel caso della nostra soluzione si tratta di un progetto nuovo, che nasce dall’esperienza di una azienda leader nel campo del turismo di lusso e del trattamento dei passeggeri e fa tesoro di tutte le esperienze passate». La precisazione convince Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato delle guardie penitenziarie. «In effetti», dice Capece, «all’inizio ero scettico, ora ne so qualcosa di più e penso che l’ipotesi vada verificata. Si tratterebbe di navi pensate e costruite appositamente per questa mansione, mi sembra che rispondano allo scopo di privare il cittadino detenuto della libertà ma non della dignità. Proviamo. Ho sentito anche altre proposte, moduli prefabbricati da assemblare a terra. Anche questa potrebbe essere una buona soluzione. A me vanno bene entrambe, purché si decida. Dal primo gennaio di quest’anno abbiamo avuto 13 suicidi tra i carcerati. Basta con le chiacchiere, passiamo ai fatti».


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