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La Torah torna nel cuore di Beirut

Ristrutturata la sinagoga, simbolo delle ferite di un Paese. E di una riconciliazione possibile

di Christian Benna

da Beirut
La ground zero di Beirut risorge con la sua antica – e unica – sinagoga. Mentre l’America si divide sulla nascita di un centro culturale islamico a due passi dalle Twin Towers, i restauratori beirutini cesellano gli ultimi ritocchi all’arco della Torah. Dopo due anni di lavori, e trent’anni di abbandono, la Maghen Abraham, il luogo di culto ebraico in stile architettonico marocchino, ridotto a brandelli dalla guerra civile, è pronto a riaprire le porte. 900 posti, anche se la sinagoga dovrà accontentarsi di ospitare non più di un centinaio di persone, gli ultimi ebrei rimasti a Beirut. A ottobre l’edificio sarà restituito alla città e nel 2011 verranno celebrati i primi servizi religiosi. «Ci auguriamo che con il restauro della sinagoga riusciremo anche a ricostruire la comunità ebraica in Libano», ha detto Isaac Arazi, 67 anni, figura di riferimento degli ebrei libanesi.
La guerra dei Sei giorni prima, nel 1967, e poi il conflitto fratricida che insanguinato per quindici anni il Libano hanno prosciugato la comunità ebraica che negli anni 50 contava fino a 25mila persone. Le tensioni sempre vive tra Hezbollah e Israele, culminate con i bombardamenti su Beirut nel 2006, costringono i pochi ebrei rimasti in città a vivere nascosti, o perlomeno a celare la propria identità nel timore di ripercussioni e attentati. Si stima che gli ebrei libanesi oggi residenti all’estero siano più di duemila. Maghen Abraham, costruita nel 1925, quando Beirut era città-rifugio di tolleranza per gli ebrei in fuga dalle leggi razziali in Europa, rinasce nell’antico quartiere ebraico, Wadi Abou Jamil. Siamo nel centro storico della capitale dei Cedri, quello devastato dalla guerra continua libanese, la ground zero di Beirut rimessa a nuovo da Solidere, la società incaricata della ricostruzione e di proprietà del premier Saad Hariri. Le ferite erano i colpi dei fucili mitragliatori delle falangi cristiano-maronite, delle pistolettate delle fazioni palestinesi legate dall’Olp di Arafat, dei missili lanciati dal cielo dai bombardieri israeliani.
Tutti i partiti politici libanesi si sono spesi a favore della rinascita della sinagoga. E persino Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, che vorrebbe cancellare dalla carta geografica lo Stato di Israele, si è speso in favore del ritorno alla vita della sinagoga, «un luogo di preghiera e di manifestazione di culto a cui diamo il benvenuto». Dei 700mila dollari di finanziamento per il restauro, 200mila sono confluiti dalle casse di Solidere, il resto è stato donato dalla diaspora ebraica. «Intendiamoci», dice un banchiere locale, «il sentimento anti israeliano è fortissimo e la maggior parte delle persone considera le parole ebreo e sionista quali sinonimi. Ma il ritorno in vita della sinagoga non è solo un segnale di tolleranza, ma è anche politico, di ritorno al dialogo».


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