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La vocazione bancaria è un limite?

Francesco Vella lancia il dibattito su lavoce.info

di Redazione

Può una qualsiasi fondazione bancaria, che voglia rafforzare il suo ruolo protagonista nel welfare di comunità, coltivare ancora “l’intimo intreccio” con la banca, magari svenandosi? A chi conviene che ogni fondazione, grande e piccola, si tenga stretto il suo pacchetto di azioni? Sono queste le domande che di Francesco Vella, ordinario di Diritto Commerciale presso l’Università di Bologna, si pone oggi su lavoce.info (leggi qui).

L’articolo di Vella ragiona sulle fondazioni bancarie e sul grande ruolo che esse hanno avuto nell’integrare (se non sostituire) il welfare locale. Cita, per esempio, l’ultimo rapporto da poco pubblicato dall’associazione di categoria, l’Acri, da cui risulta che nel 2010 gli stanziamenti nel campo dell’assistenza sociale sono aumentati di ben il 24 per cento, la variazione in assoluto più significativa tra tutti i settori di intervento.

«Il sistema delle fondazioni – scrive Vella – è consapevole della situazione e da tempo si chiede come coniugare il radicamento territoriale con lo sviluppo di un welfare incardinato su un virtuoso intreccio tra pubblico e privato, intreccio cruciale per consentire il mantenimento e la sopravvivenza di un livello accettabile di servizi». Parla di governance, trasparenza e accountability, «criteri che è auspicabile facciano parte di quella “Carta delle Fondazioni” che l’Acri sta elaborando in vista del congresso del centenario del 2012, come “timone per gestire al meglio il futuro”».

Ma poichè, continua Vella, «il futuro è anche la volatilità dei mercati e una imprescindibile esigenza di patrimonializzazione degli intermediari partecipati, bisogna affrontare con coraggio e lungimiranza gli evidenti limiti della vocazione “bancaria”».

Nell’ottica di un soggetto non profit protagonista del welfare di comunità, quindi, «non è coraggioso andarsi a indebitare per inseguire all’infinito aumenti di capitale, anche perché, ormai la nostra recente storia toglie in materia ogni dubbio, i richiami alle esigenze del “nazionalismo bancario” alla fine si rilevano sempre costosi (e inutili per gli utenti) salassi. Nessuno, ovviamente, pensa che le fondazioni debbano precipitarsi a vendere: in queste condizioni di mercato sarebbe un suicidio, ma proprio queste condizioni impongono la diversificazione degli investimenti e soprattutto una loro diversa modalità di gestione».

Ed ecco le domande: «Che senso ha che ogni fondazione, grande e piccola, si tenga stretto il suo pacchetto di azioni? Sicuramente ha un senso per gli equilibri di potere interni alle banche, ma questi equilibri sono sempre più instabili, per conservarli bisogna di fatto dissanguarsi (e più avanti si va, peggio sarà) e oltretutto incidono sempre di meno sull’ormai mitico radicamento territoriale. Pensare a iniziative di sistema con forme collettive di gestione delle partecipazioni, attribuite a soggetti specializzati, avrebbe il duplice vantaggio di migliorare la redditività dei patrimoni e separare le fondazioni dalle beghe sempre più complicate delle banche, concentrandosi sulla missione non profit. Non è affatto una strada facile, sicuramente presuppone l’armonizzazione degli interessi tra le diverse “famiglie” di fondazioni (le grandi, le piccole e le medie) e qualcuno, in passato è successo, potrebbe considerarla il classico esercizio teorico di fine estate. Ma dopo l’estate diventa difficile esattamente il contrario: continuare sulla vecchia strada senza immaginare nuove soluzioni. Il tema merita senz’altro ulteriori approfondimenti. Se vogliamo brutalmente sintetizzare, tuttavia, la domanda da farsi è questa: a una qualsiasi fondazione bancaria (e agli interessi sociali e politici che le stanno intorno) che miri a rafforzare il suo ruolo nelle comunità locali, conviene ancora “l’intimo intreccio” con la banca, svenandosi per fare la classica battaglia contro i mulini a vento?».


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