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Serra: «I veri anticonformisti? Chi fa volontariato»

Nel suo ultimo romanzo, Michele Serra racconta la difficoltà di un cinquantenne a entrare nel mondo del proprio figlio. Già alla quinta ristampa, il libro è al primo posto per numero di vendite da alcune settimane

di Francesco Mattana

Essendo Michele Serra un uomo dotato di ironia, ma anche di autoironia, non se la prenderà a male se diciamo che “Serra batte Fabio Volo” potrebbe essere un buon titolo per Satira preventiva, la rubrica comica che tiene settimanalmente sull’Espresso. Gli sdraiati, suo ultimo romanzo, da alcune settimane è al primo posto nella classifica dei libri più venduti –quindi tenendo conto anche dei best seller sulla cucina, non solo della narrativa. Volo, uomo spiritoso e cosciente delle proprie virtù come dei propri difetti, si immagina che stia vivendo con serenità il sorpasso da parte di un intellettuale. D’altra parte l’entertainer bresciano, nel suo ultimo romanzo La strada verso casa, racconta anche lui una storia di separazione –nel suo caso tra fratelli, nella storia di Serra tra padre e figlio- perciò se lo leggesse –e può darsi che lo abbia già letto- ritroverebbe qualcosa di suo.

Gli sdraiati, dunque, è una storia di incomunicabilità. Un genitore troppo preso dalla sue ambizioni –ha in animo di scrivere, entro i 95 anni, La Grande Guerra Finale, capolavoro che lo consegnerà all’immortalità- si sforza di entrare nel mondo del ragazzo che ha messo al mondo, con scarsi risultati. Ci prova in tutti i modi a portarlo con sé al Colle della Nasca –luogo immaginario- per fargli scoprire il piacere della camminata all’aria aperta. Riuscirà a convincerlo? Lo scopriranno i lettori.

Abbiamo approfondito con Serra alcuni aspetti interessanti che emergono dalla lettura del romanzo.

Ti aspettavi un consenso di queste proporzioni per Gli sdraiati?

«No. Sapevo che l'argomento del libro – il passaggio di consegne tra un padre e un figlio – è nevralgico, e tocca nervi scoperti e sentimenti profondi. Ma non era immaginabile un successo così vasto, così “pop”. Anche perché il libro, in molti capitoli, è tutt'altro che facile, è spigoloso, e ha diversi piani di lettura».

Dopo aver ultimato il libro, hai capito meglio chi sono gli "sdraiati"?

«Ovviamente no. Né pretendevo di poterlo capire. Devono capirlo loro, per loro conto e con mezzi propri. Tocca a loro sapere cosa vogliono da se stessi, dalla vita e dalla società. Il mio sguardo non può essere il loro, la mia scrittura non può essere la loro».

I ragazzi che descrivi nel libro sono consumisti ma adorano le serie televisive che sbeffeggiano il capitalismo. Come spiegare questo apparente paradosso?

«Sono cresciuti in mezzo al consumo easy, apparentemente naturale come lo scorrere di un fiume. Diciamo un consumo acritico. Ma almeno questo non è colpa dei ragazzi. L'argine che è crollato era stato costruito, evidentemente malissimo, dagli adulti».

Mesi fa hai lanciato con Vita l'idea del Servizio Civile Universale. I diciottenni di cui parli sono dei potenziali volontari?

«Apparentemente no. Ma siccome nel nihilismo si vive male, e si cresce malissimo, sono possibili i colpi di scena, anche quelli più imprevedibili. Il volontariato è una tentazione quasi irresistibile in una società dove tutto ha un prezzo. È una scelta di anticonformismo, e quando si è giovani l'anticonformismo è sempre dietro la porta. Poche cose servono a scoprire se stessi quanto scoprire gli altri».

Che lingua dovrebbero parlare gli insegnanti per avvicinarsi al loro mondo?

«Una lingua chiara e possibilmente seducente, che racconti quanta bellezza esiste nel mondo, quanto pensiero hanno saputo produrre gli umani. Ma anche una lingua fatta di regole. Le regole che i genitori sono sempre più incapaci di trasmettere e di far rispettare rappresentano, per la scuola, una grande possibilità di riscatto. A famiglie “liquide” sarebbe bello che corrispondesse una scuola più strutturata e più intransigente, anche per creare un luogo non solo complementare alla famiglia, ma anche profondamente diverso e autonomo. Dico spesso, per paradosso e per provocazione, che ai genitori dovrebbe essere vietato per legge avvicinarsi troppo alle scuole».

Nel libro è assente, per questioni di scelta narrativa, la figura della madre. Le mamme, rispetto ai papà, potrebbero risultare la chiave di volta per entrare nell'universo così impenetrabile dei figli?

«È vero, il mio è un libro maschile: lo è per scelta e anche, un poco, per timidezza. È imperfetto anche perché non è un saggio, è un romanzo in cocci, è narrazione pura. Quanto alle madri: sono genitori anche loro, con molti problemi in comune con i genitori di altro sesso. La loro tentazione specifica, mi sembra, è essere iperprotettive e produrre continuamente alibi per i loro figli. Se a madri indulgenti di sommano i padri “evaporati” di cui parla Massimo Recalcati, diventa sempre più difficile dare struttura e senso all'educazione».

Al di là delle ipotesi paradossali che elenchi nel libro, che rapporto avranno con la politica, secondo te, i futuri adulti?

«Ne avranno uno per forza. Non so quale, ma l'avranno. Perché vale sempre l'antica massima, “se non sei tu a fare la politica, sarà la politica a fare te", ed è molto peggio».

Sarà una generazione dichiaratamente atea o creeranno una religione a loro immagine o somiglianza?

«Spero non la seconda cosa, una religione easy da usare come un qualunque altro consumo. Meglio atei, cioè così dignitosi e forti psicologicamente da rigettare dogmi e credenze consolidate; oppure in grado di sostenere il peso dei dogmi e delle credenze. Non si scappa, almeno credo, dalla doppia difficoltà di una scelta che, in un senso o nell'altro, chiede fatica e pensiero».

Che letteratura produrranno? Sarà un qualcosa di simile alla prosa de La Grande Guerra Finale, tra Philip Dick e Tex Willer?

«Impossibile saperlo. Certo se è difficile perfino per uno della mia generazione credere ancora nel romanzo borghese, quello con un capo e una coda, una struttura consolidata, è presumibile che per loro lo sarà ancora di più. La lingua è spezzata, la comunicazione è rotta in mille segmenti, c'è una continuità di narrazione che non sembra più praticabile. Non è detto che sia un male. Apre, al contrario, nuove forme di linguaggio».

Perché è così importante che visitino un luogo affine al Colle della Nasca?

«Il Colle della Nasca è importante solo per il padre del mio romanzo, che come molti genitori ha l'ansia di non essere riuscito a trasmettere ai figli qualcosa di se stesso. Non lo è per il figlio, che troverà il “suo” Colle della Nasca, come tutti. E lo troverà – come tutti – lontano dal padre. Solo quando la separazione sarà avvenuta, quando l'allontanamento scioglierà i nodi del rapporto, allora padre e figlio potranno parlarsi come persone. Libere l'una dall'altra, e per questo, chissà, solidali».


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