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Don Matteo, il parroco che sbanca l’auditel

Armando Fumagalli, docente della Cattolica ed esperto di fiction, spiega come mai il parroco interpretato da Terence Hill riscuote tanto successo: «È spirituale e terreno allo stesso tempo, la gente si riconosce in lui. Inoltre gli autori dei vari episodi sono molto giovani, sanno come tenere alta l’attenzione del pubblico»

di Redazione

Difficile parlar male di Don Matteo. Anche perché il successo – soprattutto in Italia – intimorisce i critici della prima ora, spingendoli a cambiare giudizio per non scontentare l’opinione pubblica. Ad ogni modo, nessuno può negare che sia un prodotto televisivo ben fatto, con interpreti ben affiatati e scelte narrative deliziose. Stiamo parlando di un fenomeno mediatico, non solo di una fiction fortunata. È giusto quindi interpellare un esperto in materia, per capire quali siano le ragioni di un consenso numericamente così rilevante. Armando Fumagalli è direttore del master universitario in Scrittura e produzione per la fiction e il cinema, alla Cattolica di Milano. Si discute spesso –a volte a ragione- sul fallimento delle scuole specialistiche, che non riuscirebbero a introdurre i propri studenti nel mondo del lavoro. Questo problema certamente non riguarda il master diretto da Fumagalli: molti allievi hanno trovato spazio in tv, e alcuni di essi collaborano alla realizzazione di Don Matteo. La fiction ambientata a Spoleto è però solo uno degli esempi di buona televisione, che riesce ad essere edificante senza dare lezioncine moraleggianti. Con Fumagalli abbiamo discusso di questo e di altri punti interessanti. 
 
La prima puntata di Don Matteo 9 è stata seguita da più di otto milioni di persone: qual è il segreto di questo successo inarrestabile?
«Ce n’è più di uno. Innanzitutto sono storie che propongono una visione dell’uomo molto profonda, che non si limita al qui e ora: questa è una componente importante e gradita alla maggior parte del pubblico. Poi il tono è lieve, sempre positivo, dà speranza: la gente, soprattutto nelle faticose settimane feriali, sente il bisogno di un prodotto televisivo tranquillizzante. Inoltre –elemento da non trascurare affatto-  Don Matteo è scritto da gente molto giovane, gran parte degli autori della serie hanno meno di quarant’anni».
 
Tra cui alcuni suoi ex allievi…
«Tra cui alcuni miei ex allievi, esatto. È una cosa di cui vado anche molto fiero. Evidentemente sono bravi e lavorano bene, i numeri lo dimostrano. Se uno guarda con attenzione Don Matteo si accorge che le puntate sono sempre molto compatte, non c’è mai un momento di stanca. Questo è il risultato di un buon lavoro di scrittura, poi di messa in scena, di regia, di montaggio». 
 
La scorsa settimana abbiamo incontrato il suo collega Giorgio Simonelli: il professore sostiene che la tv di oggi non abbia un progetto educativo unitario
«Forse è vero che manca un progetto unitario, però mi sembra che gli attuali vertici ci stiano lavorando su. Inoltre esistono componenti di educazione anche in altri prodotti che ufficialmente non si pongono un fine educativo –come ad esempio la fiction su Olivetti- e spesso lo fanno in modo più indiretto che diretto, arrivando comunque allo stesso risultato positivo». 
 
La parola educativo ha un’accezione molto vasta. Nel 2014, in una società secolarizzata come la nostra, cosa significa questo termine?
«In generale significa fare un prodotto che promuova la crescita umana e culturale del pubblico. Anche Ballando con le stelle, se fatto bene, potrebbe avere una certa valenza educativa; Sos Tata, che è un reality show, idem. Quindi anche nel genere intrattenimento possiamo trovare dei programmi degni di lode». 
 
Possiamo dire, pacificamente, che il concetto di educativo può mettere d’accordo persone di orientamenti politici e religiosi differenti?
«A mio parere la televisione dovrebbe dare degli spazi a tutti quelli che la pensano diversamente rispetto alla maggioranza, perché è giusto rispettare il pluralismo. È evidente che Don Matteo e I Cesaroni hanno una visione diversa della famiglia, ma entrambi devono esserci: la televisione migliore è quella che gestisce la programmazione in modo tendenzialmente equilibrato, così  tutte le voci possono esprimersi». 
 
Don Matteo è sicuramente un prodotto da servizio pubblico. Spostandoci nelle tv commerciali, l’impressione è che ad esempio Il peccato e la vergogna non risponda a quei canoni educativi di cui stiamo parlando
Esatto, Il peccato e la vergogna è sicuramente un prodotto lacunoso da questo punto di vista. Però bisogna dire che anche la tv commerciale sta cercando di fare dei grossi salti in avanti. Ad esempio Downton Abbey è stato un gran bell’esperimento, purtroppo non baciato dal successo.  Si potrebbe fare un tentativo di riprogrammazione, perché è davvero bello, un peccato che l’abbiano visto così in pochi. Nella televisione commerciale ci sono teste diverse, sensibilità diverse, alcuni di questi si stanno impegnando a fare tv nel senso più nobile e alto del termine –mi viene in mente ad esempio la fiction su Borsellino. Sicuramente  sentono meno la responsabilità diretta del servizio pubblico, ma nel prossimo paio d’anni penso che ci saranno delle sorprese positive».
 
Parliamo de Gli anni spezzati,  che ha suscitato un vespaio di polemiche perché secondo molti non è ancora il momento di affrontare argomenti così scottanti sotto forma di fiction 
«Io credo invece che ci si debba occupare di queste cose: se lo si fa con rispetto, direi che si può stare abbastanza tranquilli. Poi è chiaro che su Gli anni spezzati ognuno può esprimere la propria opinione.  Mario Calabresi ha dato il suo assenso: lo ha trovato leggermente semplificato, ma la figura di suo padre secondo lui è stata trattata con rispetto. Su singoli punti, singoli dettagli si può discutere, ma l’operazione nel suo complesso secondo me andava fatta». 
 
In tanti pensano ancora che il pubblico vada “violentato” con l’hard tv. Eppure, il successo di Don Matteo –e di prodotti consimili- è la dimostrazione che la gente privilegia i toni soft
«Il pubblico apprezza la tv che non urla, penso che i programmi cosiddetti trasgressivi abbiano il fiato corto: devono sempre aumentare la dose di provocazione  per attirare nuovo pubblico. La verità è che quando un personaggio è positivo, la gente non solo lo vede ma lo rivede. Questo vale per Don Matteo ma anche per Montalbano: c’è un’affezione significativa, forte, assolutamente da non sottovalutare».
 
Sempre lì che ci piangiamo addosso sulla cattiva qualità della tv italiana, ma la verità è che all’estero si vedono cose ben peggiori…
«Il pubblico in Italia sta premiando prodotti che hanno un capo e una coda. Anche la fiction su Modugno era fatta indiscutibilmente bene, non a caso ha avuto un sacco di spettatori».
 
Domanda da un milione di dollari: come sarà la fiction del futuro?
«Alcuni argomenti vanno sempre forte: genere poliziesco; genere medical; le relazioni familiari  al centro del racconto, perché ciascuno di noi le vive. Non è facile dire come si evolverà la fiction. Penso che importeremo molti prodotti internazionali, banalmente per questioni di costi. La nostra fiction al momento riesce a fare delle coproduzioni su formati più corti, in futuro sono certo che si riuscirà a fare coproduzione anche su formati più lunghi. I cambi saranno però tendenzialmente lenti: quelli che scrivono sui giornali continuano a pensare a un pubblico colto, preparato, ma c’è la provincia che è tutto un altro universo, molto più conservativo». 
 
Nella storia della fiction italiana ci sono stati molti sacerdoti. Ce n’è uno che ricorda con particolare affetto, nostalgia?
«A me piacque molto la fiction su don Milani, trovai un modo molto equilibrato di raccontare. Poi siccome non sono più un ragazzino, ho visto I racconti di padre Brown col grande Renato Rascel, e prima ancora I ragazzi di Padre Tobia. Don Matteo si pone in continuità con questi sceneggiati storici: Terence Hill è riuscito a dare un volto molto umano, una caratterizzazione molto paterna. In passato, tra l'altro, ha anche interpretato Don Camillo».
 
Don Camillo. Un altro sacerdote che quando appare in tv fa regolarmente il boom di ascolti
«Sì perché anche Don Camillo sa coniugare magistralmente spiritualità e l’umanità. Io sono convinto, avendo conosciuto direttamente personalità come Giovanni Paolo II, che se uno è profondamente spirituale è nel contempo profondamente umano. Se uno riesce a trasmettere la parte trascendente e terrena di un personaggio  di fiction, sta facendo un esperimento reale, in cui la gente si identifica». 
 


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