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Giustizia per Pantani. Sì, ma a teatro

Dieci anni fa l'ultimo campione del ciclismo italiano veniva trovato morto, per un mix di farmaci e sostanze, in un albergo di Rimini. Si chiudeva così la parabola triste del grande scalatore. Che da due anni è uno spettacolo di successo portato in tutta Italia dal regista Marco Martinelli. L'intervista

di Mattia Schieppati

Domanda. Perché portare sulle assi di un palcoscenico la storia di Marco Pantani?
«Perché quella di Marco non è una storia chiusa. È una storia dalle mille risonanze, una storia tragica, politica, che non riguarda solo lo sport e un grande sportivo, ma riguarda l'Italia degli ultimi trent'anni. Un'Italia di plastica e irrisolta, che ha sublimato a livello mediatico – attraverso i reality – il meccanismo del capro espiatorio. La cacciata "dalla casa" di uno salva gli altri. Marco è stato il capro espiatorio attraverso il quale un intero sistema dopato, drogato, ha voluto lavare le proprie colpe. È una storia antica, antichissima: è da diecimila anni, come dice l'antropologo René Girard, che l'umanità cerca il capro espiatorio, la condanna di quell'uno che ripulisce tutti. Mentre in realtà non ci ripuliamo mai, perché non vogliamo guardare il male in faccia, non abbiamo mai il coraggio di fare i conti con la nostra ombra, quella che ci abita e spesso ci devasta».

Inizia così l'intervista-ricordo a Marco Martinelli, drammaturgo, regista e attore, animatore della Compagnia delle Albe di Ravenna, che dal novembre 2012 porta in scena Pantani, una grande prova di teatro civico che ripercorre la storia, le salite e le cadute di Marco Pantani, l'ultimo campione del ciclismo italiano: una «tragedia moderna», dice Martinelli, ancora oggi – a 10 anni dalla tragica morte dello sportivo – avvolta da tante ombre. Il doping, il tradimento di chi l'ha lasciato solo, la disperazione della madre ai funerali che ha scosso l'opinione pubblica.

Martinelli, come si è avvicinato a Pantani? Era un suo tifoso?
No, non ho mai seguito il ciclismo. Ero e sono un appassionato di calcio. Capita che, nel 2009, ero in Belgio, stavo lavorando a un Moliére con una compagnia di Mons, e incappo per caso in questo libro di Philippe Brunel, un giornalista sportivo francese, Gli ultimi giorni di Marco Pantani. Sono letteralmente precipitato dentro a questa storia. E mi accorgo che in quella storia umana e sociale c'è dentro tanto, tutto. Ho cominciato a divorare tutto quello che era stato scritto su Marco, poi sono andato a cercare i suoi genitori e quelli che avevano corso con lui, i suoi amici. Da lì, con Ermanna Montanari, è maturata l'idea di costruire un rito della memoria: uno spettacolo in cui Marco non è presente come personaggio, ma sono presenti i testimoni della sua vita, che parlano e raccontano di lui.

Cos'ha trovato tra i suoi amici e colleghi? Di Marco Pantani è rimasta una memoria mitica o un ricordo umano?
È rimasta una memoria umana, ma di una bellezza mitica. Le testimonianze che mi hanno più colpito sono state quelle dei suoi gregari, di Roberto Conti, Fabiano Fontanelli, Marcello Siboni: al di là del campione, di cui mi hanno raccontato, a emergere dirompente è la persona, l'amico, quello che comunque non si dava mai le arie della star. Marco era uno di loro, con loro parlava in dialetto durante le gare. Prima della partenza portava lui le borracce a tutti, «cosa che non abbiamo mai visto fare da nessun altro capitano», mi hanno raccontato. Era come se lui volesse con quei gesti sdebitarsi, ripagare l'amicizia e l'umanità che riceveva dai suoi compagni.

Cosa c'era in lui del carattere della sua terra?
Tanto, tutto. La tua origine ti segna, in qualche modo traccia il tuo percorso. Marco era un figlio anarchico della Romagna più sanguigna, più popolare, quella che nel suo dna da secoli parla e racconta storie di umanità. Tonina, la madre, ha fatto le piadine per tutta vita. Il papà Paolo era un idraulico. Marco era un ragazzo che non aveva studiato, ma nelle interviste era capace di lampi di poesia popolare. Quando per esempio Gianni Mura gli chiese, al termine di una tappa: «Marco, ma perché vai così forte in salita?», lui rispose: «Per abbreviare la mia agonia». Potrebbe essere un verso di Rimbaud, o di Giovanni Testori, e invece queste frasi gli venivano così, d'istinto. Erano nel sangue.

Proviamo a fare un bilancio, a dieci anni dalla morte di Marco. L'Italia ha imparato qualcosa? Quanta salita c'è ancora da fare, e da soffrire?
Non ho una risposta. Ma so che abbiamo questi nostri antenati, i quali ci indicano che non bisogna aver paura delle salite, anzi bisogna cercarle, sfidarle, perché se rifiuti la fatica e la sofferenza della salita rimarrai per sempre nel tuo pantano, sprofonderai sempre più. È un invito al coraggio, una lezione di coraggio quella che ci danno questi nostri antenati: scrittori, grandi artisti, ma anche grandi sportivi. Come Marco, per esempio.


L'intervista completa a Marco Martinelli è sul numero di febbraio di VITA, in edicola e nelle librerie Feltrinelli.


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