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Berlinguer, l’onestà senza compromessi

Un film per ricordare il leader storico del PCI, a trent’anni dalla sua improvvisa scomparsa. Emerge la personalità timida e sicura di sé, combattiva e pacifista, fermamente comunista e disponibile a creare le basi per un “compromesso storico” coi cattolici

di Francesco Mattana

Da cosa si intuisce che pian pianino, senza accorgercene, stiamo diventando una nazione di barbari? Da molti segnali, alcuni evidenti e altri più sfumati. Cominciamo da quelli più lampanti: l’involgarimento generale, che è sotto gli occhi di tutti e si palesa in varie forme, tutte poco gradevoli. Poi l’incattivimento della società nel suo complesso: ad esempio, l’idea che Walter Veltroni provi nei confronti di Enrico Berlinguer un sentimento autentico di riconoscenza per molti non è credibile,  non prendono minimamente in considerazione l’ipotesi della sua buona fede. Allora cosa succede: il desiderio, da parte dell’ex sindaco di Roma, di fare un film per ricordare un grande uomo viene scambiato per retorica; l’intento di testimoniare, grazie alla forza delle immagini, l’impatto profondo che il sassarese ha avuto sulla storia d’Italia viene derubricato come melassa buonista. 
 
Poi ci sono quei segnali di degrado avvertibili solo da un occhio più attento: la perdita della memoria storica è uno di questi. Quando c’era Berlinguer comincia con una sfilata di ragazzi – molti dei quali studenti universitari – che non sanno chi sia stato Berlinguer e cosa abbia rappresentato. Ignorare il proprio passato equivale, né più né meno, a non conoscere la terra sotto i propri piedi. Di per sé questo fatto non è grave: se uno vive la propria vita con l’unico anelito di godersi l’attimo, il problema allora è risolto in partenza. A questo aggiungiamo poi che i giovani interpellati per il film non difettano certo di creatività: c’è chi  piglia Enrico per francese, perché  quella r finale del cognome testimonierebbe una indiscutibile origine d’oltralpe; chi, come una graziosa fanciulla, lo piglia addirittura per coreano e chiarisce – nel caso qualcuno fosse andato a scuola non per imparare ma solo per scaldare i banchi – che la Corea fa parte dell’Unione Europea. Berlinguer e Kim-Jong-un per lei pari sono: anche il leader del PCI, in fondo, aveva una pettinatura poco attraente – per quanto poi lui avesse il buon gusto di non imporre, con la violenza, quell’acconciatura a tutti gli italiani.
 
Noi ci scherziamo sopra su queste cose, ma è evidente che si ride per non piangere. La memoria è una cosa seria e per fortuna, al termine di questo ameno corteo di ignorantelli, Veltroni inserisce una testimonianza di Marcello Mastroianni. Il quale con sobrietà, in maniera ferma ma non giudicante (era troppo autoironico per giudicare il prossimo) dispensava alcune piccole verità: che il replicante del film Blade runner soffriva perché non aveva un passato da ricordare; che gli indiani Navajo insegnavano a tenere a mente quante più cose possibile, perché tutto ciò che dimentichiamo si disperde nell’aria, come una nuvola di fumo. 
 



A prescindere da quanto sia fondamentale ricordare il leader sardo  – che ha raccolto consensi trasversali perché sapeva farsi voler bene più o meno da tutti – è importante anche dire che Quando c’era Berlinguer è un bel film: alla fine della proiezione guardi l’orologio e scopri che – senza rendertene conto – sono volate via due ore. Il merito è sicuramente di Berlinguer, che pur avendo un temperamento flemmatico ha vissuto l’esperienza politica con passione vera, con una sincerità che intravedevi nei suoi occhi schivi e riservati. Ma il merito è pure di Walter Veltroni: riusciremo mai, in questa nostra Italia ormai avvezza ai furori “forconisti”, a esprimere un giudizio globale su una persona? Riusciremo ad affermare che, al di là delle opinioni personali sul suo operato politico, l’ex segretario del PD si è sempre distinto per una notevole sensibilità culturale?  Basta un minimo, ma proprio un minimo di capacità di discernimento e immediatamente emerge con nitidezza che Veltroni ha un talento artistico, venuto a galla per il momento solo in parte. 
 
Questo film dimostra la sua abilità nel maneggiare la materia narrativa. Ed è anche la prova di una umiltà di fondo. È come se lui dicesse, tra le righe: guardate che questo signore qui a cui ho dedicato un film è stato il mio maestro, e di fronte a lui noi eredi dobbiamo sentirci come nani sulle spalle di un gigante; guardate che l’idea di aprire un ponte di dialogo coi cattolici era molto, ma molto più soppesata e lungimirante delle larghe intese e degli inciuci di vario colore; guardate, soprattutto, che l’uomo del compromesso storico sull’onestà non accettava compromessi: con lui bisognava parlare guardandolo dritto negli occhi, e se gli occhi non erano sinceri  se ne accorgeva in un nanosecondo. 
 
Questo è stato Enrico Berlinguer: non un santo – anche perché, da non credente, non ambiva di sicuro alla santità – ma sicuramente una persona leale, da cui potevi star certo che non sarebbe arrivata la coltellata alla schiena. 
 
Si diceva, all’inizio dell’articolo, che Quando c’era Berlinguer non è un documentario retorico e agiografico. L’Italia di Berlinguer non era affatto l’Arcadia dell’antica Grecia: da giovane Enrico aveva vissuto la guerra, ed era stato anche in carcere per le sue idee (situazione peraltro vissuta con estrema dignità, come dimostrano i carteggi coi familiari). Da adulto, e da segretario di un grande partito, ha osservato coi propri occhi la stagione della violenza: la strage di Piazza Fontana; la bomba in Piazza della Loggia; il brigatismo rosso che era arrivato a uccidere Aldo Moro, l’uomo con cui pazientemente stava provando a intessere un dialogo. Tutti eventi che lui ha vissuto con dolore, con dispiacere sincero, ma nella stesso tempo con una lucidità che gli consentiva di andare avanti, di continuare a lottare. 
 
È chiaro che quando un politico si distingue in maniera così positiva il ricordo di chi lo ha conosciuto non può che essere pieno di nostalgia e di gratitudine. Le lacrime di Napolitano alla fine del film sono vere, verissime: aver condiviso insieme a un amico un pezzo di strada importante e non poterlo più abbracciare è un dato di fatto che non si può accettare. E allora, essendo purtroppo impotenti dinanzi alla morte, non resta che commuoversi. La commozione è un sentimento democratico: coinvolge il più umile tra i lavoratori e il presidente della Repubblica. 
 
In troppi, nella politica di oggi, desiderano passare alla storia come corridori dei cento metri: Berlinguer, a differenza loro, aveva compreso che il governo di un Paese è una lunga maratona, fatta anche di stazioni intermedie. Soprattutto di stazioni intermedie.
 

 


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