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Economia & Impresa sociale 

Guerini: la cooperazione sociale è il motore dell’occupazione

L'intervento del presidente Giuseppe Guerini all'Assemblea nazionale Federsolidarietà-Confcooperative in corso a Roma. «Negli anni della crisi sono stati 42.300 i posti di lavoro creati»

di Redazione

Il discorso integrale del presidente di Federsolidarietà-Confcooperative Giuseppe Guerini all'Assemblea Nazionale in corso a Roma

Care cooperatrici sociali, cari cooperatori sociali, Autorità, illustri ospiti, amici, colleghi,
grazie a tutti Voi, grazie per la vostra importante partecipazione che avete testimoniato oggi con oltre 500 presenze e in tutto il percorso assembleare.

Voglio iniziare così questa relazione, che dividerò in due parti per renderla coerente con le tematiche che tratteremo e con i relatori e gli ospiti che saranno con noi, perché Voi qui oggi avete anche la responsabilità ed il compito di rappresentate la passione, l’impegno, la presenza di tutti i cooperatori sociali che hanno partecipato alle assemblee regionali ai quali si aggiungono tutte le partecipazioni nelle assemblee e negli incontri preparatori a livello provinciale.

Questo percorso, in un momento generale del Paese di difficoltà della rappresentanza, possiamo affermare che si è rivelato in controtendenza. Ci ha impressionato il dato delle circa 6.000 partecipazioni (se comprendiamo i tre livelli), forse questo è anche un riconoscimento al lavoro ed alle attività che abbiamo costruito noi tutti insieme, livello nazionale e territoriale, politici e tecnici.

In questi quattro anni abbiamo vissuto intensamente la rappresentanza; e non poteva essere altrimenti. Non ci siamo riposati, non solo perché non potevamo, vista la mole di problematiche da affrontare, ma anche perché non è nel nostro spirito. Insieme abbiamo vissuto una stagione impegnativa ed intensa, carica di preoccupazioni, ma anche densa di opportunità e di sfide appassionanti. In questo quadriennio abbiamo potuto toccare con mano nuove sfide, nuove criticità trasformabili in grandi potenzialità di ampliamento dei diritti esigibili nel welfare ed anche nello sviluppo locale.

È stata una stagione complicata: non era scontato riuscire a far capire che l’incremento IVA per le prestazioni sociosanitarie ed assistenziali rese dalle cooperative sociali di tipo a) avrebbe prodotto saldi invariati a livello fiscale, riduzione dei servizi, oltre 40.000 disoccupati ed un fiume di persone deboli (anziani, minori, stranieri) totalmente esposte e prive di servizi. Non era semplice far capire che questa sciagurata previsione avrebbe fatto “saltare il banco” sia rispetto ai bilanci dei Comuni, sia rispetto alla coesione territoriale che “noi welfare” assicuriamo. Abbiamo trovato lungo la strada il Vostro impegno, l’ANCI, la Conferenza Stato Regioni, la Confederazione, l’Alleanza delle Cooperative Italiane e quella del settore sociale, i nostri partner profit, molti politici che hanno capito e che ringrazio.

Ma è stato anche difficile far comprendere all’Europa e ad alcuni sindacati di altri paesi europei, che per inserire davvero al lavoro le persone svantaggiate, bisognava superare la nozione di “laboratorio protetto” che da dieci anni di fatto ci teneva in scacco e che bisognava assumere, invece, una nozione di impresa sociale coerente con la quota di inserimenti lavorativi dettata dalla legge della cooperazione sociale, ovvero il 30%.
Paradossalmente, proprio noi che abbiamo già inserito al lavoro oltre 16.500 persone svantaggiate, come nessuno ha fatto in Europa, abbiamo faticato molto a far capire che bisognava modificare la normativa avendo obiettivi alti e grande comprensione dei processi di medio periodo.

Ebbene, come per l’IVA, abbiamo vinto anche questa sfida. E questo lo dobbiamo certamente a chi ci ha lavorato, sul piano politico e tecnico, padroneggiando gli strumenti ed utilizzando le interlocuzioni al meglio, ma lo dobbiamo al lavoro che da anni svolge la cooperazione sociale.
Vedete, cari colleghi cooperatori, alla lunga, non si può rappresentare ciò che non c’è.
Se il movimento è sano, è utile per la società, se le comunità se ne giovano, anzi sono alimentate da questo nostro modo di essere attori dell’interesse generale, allora il compito di chi rappresenta, seppur complesso, è meno complicato.

Non mi dilungherò oltre per non cadere nella tentazione di una sterile celebrazione dei tanti risultati ottenuti, o nella specifica elencazione delle numerose attività che abbiamo svolto in questo quadriennio, perché tutti Voi ne siete già a conoscenza, ne abbiamo discusso in molte occasioni durante le assemblee regionali; e perché tutto il materiale è comunque a disposizione.
Voglio, pertanto, parlare del futuro, accennando tra le righe ai nostri tanti progetti.

Cosa ci riserva il futuro
Il futuro è tutto da conquistare. Vorrei iniziare così.
Tutti viviamo le problematiche che affliggono l’Italia, ma noi cooperatori sociali siamo nati proprio per risolvere molte di queste. Se non ci fossero stati i bisogni delle persone di ricevere assistenza domiciliare, di fruire più agevolmente di un’educazione per i piccoli, di veder alleviato della disabilità, o della non autosufficienza, di veder riconosciuto il diritto, dopo aver espiato la propria pena, di cambiare vita tramite un lavoro regolare e legale, se non ci fossero state le necessità dei giovani e delle donne di avere un’opportunità lavorativa, ma anche degli ultra cinquantenni che hanno perso il lavoro nel vedersi riconosciuti ancora come persone attive, se non ci fossero state le difficoltà delle persone immigrate con le loro sofferenze; insomma se tutto ciò ed altro ancora (beni comuni, relazionali, di interesse generale nel modo più ampio possibile) fosse già regolato, gestito, soddisfatto il nostro impegno e la nostra esistenza non avrebbero alcuna ragione di essere.

Perché saremmo semplicemente delle imprese (sia pur Onlus) e non dei cooperatori della solidarietà.
Invece noi esistiamo perché ci facciamo carico di un bene comune, di una politica pubblica fatta da soggetti privati in modo sussidiario. E, poiché, vogliamo tendere all’universalità dei diritti, per affermarli e renderli esigibili, non possiamo che aver piacere di “inciampare” in nuovi o rinnovati bisogni a cui dobbiamo e possiamo far fronte. Se avessimo paura di ciò vorrebbe dire che abbiamo perso lo smalto, che siamo troppo seduti, che la nostra sete di giustizia sociale si è acquietata. Ma così non è. Tutte le esperienze che abbiamo sono, invece, nella direzione dell’allargare e migliorare le risposte alle esigenze del nostro territorio.

Questo è il nostro mestiere, è la nostra passione, e questo “inciampare” deve essere la nostra aspirazione più grande.

È ciò che ci aspetta nel prossimo futuro. Vecchi e nuovi bisogni, vecchie e nuove modalità di farvi fronte, vecchi e nuovi stili e metodi per risolvere quanto troviamo nel nostro percorso di agenti di welfare e, aggiungo, di sviluppo territoriale.

Ci sarà molto da lavorare. La stagione che si apre sarà molto densa. Questo tempo sta consegnando ai nostri cooperatori sociali la responsabilità di essere imprenditori dell’innovazione nei territori e nel Paese. Ciò richiede anche uno sforzo affinché la rappresentanza di interessi così complessi abbia una centratura sulle tematiche che sono a cuore delle aderenti.

Quanto siamo cresciuti
Abbiamo dimostrato anche in questo quadriennio di essere il settore economico ed imprenditoriale più dinamico. Secondo il Censimento ISTAT 2011, negli ultimi 10 anni il numero delle cooperative sociali è cresciuto da 5.674 a 11.264 (+98,5%) e a livello occupazionale gli occupati sono aumentati del 114,9% passando da 159.114 a 365.006. Inoltre, possiamo stimare circa 7 milioni di persone da noi servite.

Le cooperative
Federsolidarietà in questi anni ha continuato ad attrarre adesioni al punto che rappresenta 6.042 cooperative sociali, imprese sociali e consorzi aderenti (fonte dati dicembre 2013). Di queste, 3.817 sono cooperative sociali di tipo A, 1908 sono cooperative sociali di tipo B. I consorzi sono 257. Sono circa 60 le imprese sociali aderenti costituite in forma di associazione, fondazione e SRL (non cooperative sociali). Tra le nuove adesioni, la maggioranza assoluta, il 62% (1.343 cooperative), risulta costituita tra il 2008 e il 2013. Le cooperative sociali crescono in tutte le Regioni e soprattutto in quelle del Mezzogiorno, abbiamo così nei fatti, anche noi nel nostro piccolo, sfatato il luogo comune del Mezzogiorno incapace di collaborare. Certo, si dirà, sono start up con pochi capitali. Meno male potremmo aggiungere! Quando si nasce con troppi capitali nel Mezzogiorno la sensazione non sempre è delle migliori.
Bisogna certamente incoraggiare queste, come tutte le altre, cooperative verso processi di fusione e patrimonializzazione.

I soci
Siamo cresciuti anche nel numero di soci delle cooperative sociali, che sono 220.200 nel 2013 (+10,5% rispetto al 2008). I soci volontari hanno superato le 21.500 unità.
I soci partecipano attivamente alla vita delle nostre cooperative sociali. Nel 79,6% delle cooperative (percentuale che raggiunge il 90,8% nel Mezzogiorno), infatti, oltre il 50% degli aventi diritto ha partecipato alle assemblee della propria cooperativa. Si conferma un sistema imprenditoriale giovane. Solo il 29,2% dei soci delle cooperative ha, infatti, più di 50 anni di età (percentuale che non supera il 21,9% al Centro e che si attesta al 19,9% nel Mezzogiorno).

Gli occupati e le persone svantaggiate
Occupiamo 226.300 (fonte 2013) persone (le persone “ufficialmente svantaggiate” censite, sono oltre 16.500). Negli ultimi cinque anni siamo cresciuti di 42.275 unità, in parte per la nascita di nuove cooperative sociali, in parte per il rafforzamento o la tenuta di quelle già in attività.
Noi ed i nostri occupati rappresentiamo il più grande network sussidiario di servizi d’Italia: sono 178.200 le persone che operano nei servizi socio sanitari, assistenziali ed educativi e 48.100 nelle cooperative sociali di tipo B.

Qualità del lavoro
Nel complesso, nelle cooperative sociali di Federsolidarietà prevale la stabilità in coerenza con la nostra aspirazione a garantire certezze per i nostri soci e i nostri lavoratori. Il 75,3% del totale occupati ha un rapporto di lavoro da dipendente a tempo indeterminato. Il 63,5% della base occupazionale è anche socio della cooperativa in cui presta lavoro: una percentuale che tende ad abbassarsi in particolare in ragione dei cambi d’appalto.

Il fatturato aggregato e la capitalizzazione
Il fatturato si attesta a 6,4 miliardi di Euro (fonte 2012 ultimo anno per cui abbiamo i dati completi dei bilanci) che è superiore del 38,3% rispetto al 2008. In media nelle cooperative sociali aderenti a Federsolidarietà oltre il 58% del fatturato totale è direttamente riconducibile alla Pubblica Amministrazione. Continua negli anni ad aumentare la quota di fatturato che arriva direttamente dagli utenti dei servizi nel settore socio-sanitario ed educativo e da servizi resi dalle cooperative sociali di tipo B a privati. Ma non è un fenomeno omogeneo nel Paese. Nel Mezzogiorno il fatturato diretto realizzato con la P.A. raggiunge l’81,7%.
Senza considerare la quota derivante dalle nuove adesioni, il fatturato aumenta, ma con tassi annui decrescenti.
Nel complesso, tra il 2012 e il 2008 il capitale sociale aggregato è aumentato del +51%. Alla crescita, sostenuta e generalizzata, della capitalizzazione corrisponde una diminuzione, in tutti i settori, dell’incidenza delle cooperative con capitale sociale inferiore a 10mila Euro che sono passate dal 62,7% del 2008 al 51,4% del 2012.
Si tratta di un passo in avanti significativo e di un segnale degli sforzi che hanno compiuto in questi anni i cooperatori sociali.

Quanto investiamo
Nel complesso tra il 2012 e il 2008 il capitale investito è aumentato del +36,1%. Si conferma quindi che, anche negli anni della crisi, le nostre cooperative sociali hanno continuato ad investire in nuovi servizi e per consolidare la propria attività anche se soffre la “marginalità operativa”. Tra il 2012 e il 2008 solo le cooperative di tipo A hanno salvaguardato il margine operativo (+5,5%). Il settore dell’inserimento lavorativo, invece, segnala una erosione dei margini (-4,3%).
Nel complesso, tra il 2012 e il 2008 il patrimonio netto aggregato è aumentato del +24,2%. A livello territoriale, il patrimonio netto aggregato tra il 2012 e il 2008 è cresciuto in tutte le aree territoriali. Al Nord, la crescita fa segnare il +21,8%, al Centro +31,4% e al Sud +42,8%.

I nostri campi di impegno
I dati che ho citato non mostrano però l’elemento fondamentale, decisivo del nostro impegno. Le cooperative sociali sono riuscite a tenere, e talvolta anche a crescere sul mercato, perseguendo una mission specifica che è quella fondativa dell’articolo 1 della legge 381 del 1991 ovvero il perseguimento dell’interesse generale attraverso servizi sociali, sociosanitari, educativi o attraverso l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate. Una mission non speculativa (siamo Onlus di diritto) rivolta ai beni pubblici, ai beni comuni, ai beni relazionali, sviluppando una funziona pubblica attraverso una soggettività privata.
E’ questo il motivo per il quale anche la rappresentanza, la nostra Federazione, deve essere un’organizzazione che per tutelare e sostenere le cooperative sociali, non può fare a meno di mostrarsi attenta ed aperta su moltissime tematiche e deve soprattutto esser sempre proiettata verso l’esterno. Siamo in una qualche misura costretti ad interessarci del mondo e delle persone (e cercheremo di farlo anche nel corso di questi due giorni).
È questo il nostro know how si direbbe in economia industriale. A me piace dire che questo è il nostro spirito, che ci ha animato in questi anni, nei quali abbiamo sempre più affinato un metodo di lavoro basato sul coinvolgimento e sulla sollecitazione continua dei nostri dirigenti.
Abbiamo prodotto una grande quantità di materiale documentale e di strumenti, durante l’arco di questi 4 anni di mandato e fino ad oggi stesso (l’Atlante “Italia 2020”, le pubblicazioni sugli affidamenti e sui Comuni in dissesto, il documento sui finanziamenti europei etc.) proprio per alimentare questa propensione naturale all’innovazione ed all’allargamento dei campi di impegno.

Il presidio europeo
In Europa avremo molto ancora da fare per consolidare una posizione di leadership che si è confermata anche sul piano internazionale ma soprattutto europeo, che abbiamo conquistato con il nostro costante impegno.
La nostra presenza era necessaria per fare in modo che la nostra esperienza, così nota tra gli operatori sociali di tutto il mondo, riuscisse a contaminare anche le Istituzioni europee. Nella Conferenza della Commissione Europea sull’impresa sociale “Imprenditori sociali: prendete la parola!” che si è tenuta lo scorso Gennaio a Strasburgo la leadership italiana e cooperativa è stata netta. Ma altro ancora ci fa ben sperare anche per il futuro. L’Unione Europea, infatti, a partire dalla Comunicazione sull’Impresa sociale del novembre 2011 e con la Strategia “Europa 2020” per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, ha identificato nella promozione delle imprese sociali una delle azioni chiave da mettere in campo per uscire dalla crisi, grazie, in particolare, all’impatto occupazionale che le imprese sociali hanno nel settore dei servizi di welfare, i cosiddetti “white jobs” e dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. La Conferenza ha fatto il punto, a due anni dal lancio dell’Iniziativa, delle azioni intraprese e di quelle da portare avanti in futuro con la nuova Commissione che si insedierà a breve.
La credibilità e l’impegno delle cooperative sociali italiane nello scacchiere europeo si sono ulteriormente confermate anche sul piano delle reti di rappresentanza, tant'è che lo scorso 6 maggio il nostro vicepresidente Luca Dal Pozzo è stato eletto Presidente di CECOP ed in seguito è entrato nel board di Cooperatives Europe.

Conseguentemente anche la manutenzione normativa a livello europeo ha riservato delle importanti novità. Si pensi all’innalzamento del regime “de minimis” per gli aiuti di Stato a 500.000 euro, la previsione di priorità per le imprese sociali nei fondi strutturali 2014-2020 e gli strumenti finanziari dedicati per le imprese sociali creati dall’Unione Europea (Fondi EUSEF).
Si tratta ora di presidiare i livelli regionali affinché quanto di buono prodotto in Europa non si disperda in mille rivoli e bisogna evitare che tali concetti vadano diluiti in ambienti dove tutti vogliono rappresentare tutto.

Le nuove Direttive europee sugli appalti pubblici e le concessioni, approvate dal Parlamento Europeo proprio il 15 gennaio scorso, ci auguriamo vengano recepite quanto prima nell’ordinamento nazionale. Infatti, l’art. 20 della Direttiva appalti e l’art. 24 di quella sulle concessioni hanno “fatto proprie” le previsioni della legge 381 del 1991 sulle cooperative sociali, stabilendo che si può riservare il diritto di partecipazione agli appalti ad operatori economici il cui scopo principale è l'integrazione delle persone con disabilità o svantaggiate, che devono essere almeno il 30% del totale dei lavoratori. Vale la pena ricordare che, nel 1992, l’Unione Europea aveva aperto una procedura d’infrazione sulle norme della legge 381, che erano le prime previsioni di clausole sociali a livello europeo, per violazione della concorrenza; ora sono buone prassi previste dalle nuove direttive. Ciò dimostra che non dobbiamo aver paura di ingaggiare con l’Europa un dialogo serrato, se riteniamo che le nostre ragioni siano giuste.

Le tematiche nazionali: i nostri progetti, le nostre proposte
La cooperazione sociale nelle carceri

Forse un piccolo contributo dalla cooperazione sociale è arrivato anche rispetto alla sentenza “Torreggiani”; gli sforzi messi in campo dal Governo hanno sempre trovato tra le cooperative sociali che operano nelle carceri italiane il massimo impegno perché attraverso il lavoro, la formazione e il trattamento sociale delle persone detenute si potesse migliorare la situazione pesante del sovraffollamento. Ora questo lavoro sta trovando concreta attuazione anche nei provvedimenti tanto attesi proposte molto importanti e di questo siamo grati al Ministro Orlando ed al Ministero dell’Interno.
Gli interventi inseriti nello “Schema di decreto ministeriale concernente regolamento recante sgravi fiscali e sgravi contributivi a favore di imprese che assumono lavoratori detenuti” sono importanti per le oltre 200 cooperative sociali che in tutta Italia, ogni giorno, in oltre 30 Istituti di Pena, con 40 Uffici dell’Esecuzione Penale Esterna, assicurano più di 600 postazioni di lavoro remunerate all’interno delle Case Circondariali e di Reclusione e diverse migliaia di posti di lavoro creati fuori dal carcere, tanto per detenuti ammessi al lavoro esterno, quanto per persone beneficiarie di misure alternative alla detenzione.
Su questo decreto, che ha già un buon impianto, diamo la nostra disponibilità, anche in base alla nostra esperienza concreta del mondo del lavoro nelle carceri.
Ma la cooperazione sociale non è solo lavoro. Negli anni abbiamo maturato un’importante esperienza di servizi radicati nelle comunità locali, in grado di gestire molte fasi del percorso di reclusione e reinserimento sociale: formazione, educazione, politiche attive del lavoro, servizi sociali e sanitari, servizi di accoglienza e residenzialità.
La cooperazione sociale rappresenta, insieme alle energie espresse dal volontariato e dalle associazioni di promozione sociale, la rete più estesa e diffusa su tutto il territorio nazionale volta a sostenere processi di inclusione sociale, lavorativa, educativa e formativa nei confronti della popolazione soggetta a restrizioni della libertà.
La cooperazione sociale è esperienza di partecipazione e responsabilità, per questo noi siamo interessati a tutte le realtà in cui la responsabilità e l’impegno sono oltre che principi fondamentali, occasioni di educazione e reinserimento.
Noi siamo imprese sociali e quando lavoriamo nelle carceri o con le persone ammesse a misure alternative alla detenzione, non vogliamo essere solo imprese che offrono opportunità di lavoro ma strumenti di veri percorsi di vita, per contribuire a ricostruire quella “seconda possibilità” che è un dovere che ogni Stato civile deve dare ai cittadini.
È questo il nostro modo di interpretare l’impresa sociale. Fare della solidarietà un valore imprenditoriale è il nostro desiderio e il nostro saper fare; mettere in gioco noi stessi nella relazione con l’altro per promuoverne l’emancipazione è il nostro rischio d’impresa.
Occupabilità: per i giovani e le donne soprattutto ma non solo. Il caso del Servizio Civile
Non possiamo sottrarci, e non lo facciamo, nel rispondere ad uno dei nuovi bisogni che è quello dell’inattività lavorativa e scolastica dei giovani.
Questa è una grande piaga. Noi abbiamo delle ricette sia sul tema specifico dell’occupabilità sia sul piano più generale dello sviluppo locale. Per spezzare questa deriva intollerabile è necessario che si cominci a coinvolgere direttamente i giovani nel fare esperienze dirette di impegno e assunzione di responsabilità. Da troppo tempo ai giovani che cercano lavoro si offre, quando va bene, un corso di formazione. Offriamo loro invece opportunità di fare esperienze, torniamo a rendere più semplice e percorribile l'assunzione anche di minorenni per lavori estivi e temporanei. Da troppo tempo il nostro Paese ha abbandonato ogni occasione e rito di passaggio che accompagni i giovani alla nascita civile. Non ci sono luoghi e tempi per una “restituzione sociale” che sia momento di assunzione di responsabilità verso l'altro e verso la comunità.

Rispetto al tema dell’occupabilità:
•    È sotto gli occhi di tutti una buona pratica nazionale: il Servizio Civile. E’, nel nostro caso, nella rete di esperienze di casa nostra, non solo una pratica di restituzione del ragazzo alla collettività, ma anche un forte investimento sul giovane (e qui ringrazio Ilaria Rossignoli, Margherita Vangelista e Vincenzo De Bernardo per la gestione di questa attività). I nostri dati confermano che una percentuale significativa (circa il 40%) dei giovani che hanno svolto questa esperienza hanno avuto la possibilità di entrare nelle reti relazionali mature e di trovare lavoro, che non vuol dire pre lavoro, non vuol dire lavoro mascherato, non vuol dire apprendistato. È questo un altro istituto, direbbero i giuristi; è un qualcosa di diverso. E’ la concreta possibilità del giovane di impegnare il suo senso civico e di entrare in una rete che non è più quella dei coetanei della scuola, o degli amici “del muretto”. E’ una rete che, proprio perché è propesa a “farsi carico di”, se intravede delle qualità nel giovane e se ne ha la possibilità, di certo proverà a dargli un’opportunità. Dobbiamo però fare di più. Dobbiamo non solo chiedere ma anche dare, anche metterci in gioco per capire come sostenere e cofinanziare questa esperienza.
In questo contesto il Servizio Civile è stato per molti di noi, della generazione degli obiettori di coscienza, un fondamentale momento di passaggio e di formazione; consolidava l'ideale non violento e la scelta di rinuncia alle armi aggiungendo un sovrappiù di impegno civile e sociale. E da quel movimento è nata una parte importante delle realtà della società civile, dell'associazionismo, del volontariato e della cooperazione sociale italiana. Tra gli attuali dirigenti di moltissime realtà del terzo settore vi sono persone che sono arrivate all'impegno sociale passando dal Servizio Civile. Un Servizio Civile Universale, o comunque molto ampio, avrebbe in primo luogo questa importate funzione di educazione civica e sociale. Un percorso di responsabilizzazione verso la collettività che mette i ragazzi e le ragazze in condizione di misurarsi con contatti relazionali e di impegno diversi dal mondo della scuola o della famiglia. Questa funzione fondamentalmente educativa e socializzante è anche un importante momento “capacitatore” che aumenta ovviamente le possibilità per chi lo attraversa di trovare in seguito un'occupazione. Il vero motivo per cui il Servizio Civile può essere anche una formidabile formula per realizzare una politica giovanile del lavoro attiva, consiste proprio nell'esperienza in sé. Perché muove abilità e motivazioni, abitua alla responsabilità, introduce nella dimensione del dono. Caratteristiche che poi uno spende nel mondo del lavoro e nella vita sociale con risultati positivi.
•    Possiamo e dobbiamo dare un forte contributo allo “Youth Guarantee”. Il Piano italiano di attuazione della Garanzia per i Giovani predisposto dalla Struttura di Missione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, può essere un volano importante, così come alcuni provvedimenti già inclusi nel Decreto Legge 76/2013 (incentivi per assumere giovani under 30 a tempo indeterminato, finanziamento di tirocini formativi, finanziamento di iniziative di auto impiego e auto imprenditorialità).
Ma, per l’attuazione delle misure della Garanzia Giovani bisogna puntare sulle organizzazioni che hanno dimostrato di saper creare buona e vera occupazione e sui settori che oggi permettono ai giovani di crearsi un lavoro. Per far ripartire subito il mercato del lavoro, non si può aspettare. Anche qui bisogna però rendere più semplici e diretti i collegamenti col mondo reale, evitando che il meccanismo ci inceppi nelle filiere e competenze istituzionali. Quanto più stretto, facile immediato sarà il collegamento tra cooperazione sociale, anche tramite le strutture di sistema della rappresentanza e quelle consortili che hanno già forti esperienze in tal senso, e persone da inserire, tanto più i risultati saranno più chiari e concreti. Ciò vale anche per aumentare l’insoddisfacente livello di occupazione femminile, soprattutto nel Mezzogiorno, che come sappiamo costituisce uno degli elementi di criticità del mercato del lavoro italiano.
•    Ma, sul tema dell’occupazione femminile, bisogna fare un lavoro di fino, dando dignità normativa e spessore finanziario ai modelli già esistenti di conciliazione che abbiamo sperimentato nel Paese. Continuiamo ad essere una società con una cultura del lavoro inadeguata, con una disponibilità alla conciliazione che è indegna di un Paese democratico progredito; diversamente come spiegare che più di 650 mila madri che si prendono regolarmente cura di figli minori di 15 anni, di adulti malati, disabili o di anziani, che sono inattive oppure occupate part-time, lo sono a causa dell’inadeguatezza dei servizi di cura per l’infanzia e per le persone non autosufficienti? Secondo una ricerca del CENSIS queste madri dichiarano che l’inadeguatezza dei servizi e i costi elevati sono il primo ostacolo. Non tanto l’insufficiente diffusione dei servizi nel territorio. Questo dato ci deve interrogare poiché noi abbiamo un ruolo importante nella realizzazione di questi servizi.
•    Ma il lavoro si crea anche se si libera dall’irregolarità. Il caso delle assistenti domiciliari, delle badanti insegna. Molte di esse sono irregolari. Ma anche qui la cooperazione sociale può entrare in gioco. Basta una piccola manutenzione normativa che risolve sul modello belga (più che francese) il tema della triangolazione tra badante, famiglia, cooperativa sociale. Abbiamo fatto i compiti a casi, si può fare. Garantiremmo, in tal modo, anche la possibilità di servizi H24, così come la formazione alle operatrici e l’assistenza alle famiglie (ma su questo ritorno oltre, quando tratterò di servizi di cura e di voucher).

Rispetto allo sviluppo locale.
•    Non possiamo pensare che l’attuale stock di imprese (e quindi anche di imprese sociali come le nostre) sia in grado di assorbire tutta la massa di disoccupati che c’è. Bisogna fare di più. Bisogna aumentare lo stock di imprese e per fare ciò bisogna avere delle politiche industriali. Bisogna collegare di più occupabilità con sviluppo, liberando le energie presenti nei territori piuttosto che assegnare risorse che poi sono mal utilizzate.
•    Le politiche industriali non si fanno (da tempo) solo con i soldi, con i trasferimenti monetari (questo è un tema sul quale torneremo più volte nel corso della due giorni). Nel nostro caso, quello della cooperazione sociale, un “piano industriale dei beni comuni” sarebbe molto più utile di un incremento di risorse (magari temporanee e spese a singhiozzo) su alcuni servizi specifici. O meglio, non bastano più le risorse monetarie. Serve valorizzare quel che di buono e di bello c’è nel paese, restituirlo alla cittadinanza attraverso gestioni no profit che però occupano persone.
•    Dobbiamo cercare di promuovere consumi più responsabili e qualitativi, investire ad esempio sugli attrattori culturali e ambientali come “distretti” di produzione sociale, sviluppando vere e proprie “politiche industriali” dei beni comuni. Ha ancora senso incentivare consumi di beni materiali ad alto impatto e trascurare investimenti in cura e cultura? Ha senso che oltre il 75% abbia una casa di proprietà, e molti ne possiedano diverse, e poi non avere adeguati incentivi o facilitazioni fiscali per la cura? Qui entro in gioco il ragionamento sullo sviluppo locale (ed il suo collegamento con il welfare) che approfondiremo in vari momenti assembleari. Noi siamo, su questo, una rete che può dare un contributo decisivo al Paese su tali temi.

Assistenza alle persone: non autosufficienza, lavoro nero e badantato grigio, disturbi dell’apprendimento, povertà
La non autosufficienza sarà l’emergenza sociale dei prossimi anni: mentre possiamo sperare che lo spread migliori giorno dopo giorno, nel 2020 in Italia gli anziani oltre i 75 anni, saranno 7,5 milioni (+1.3 milioni di persone, ovvero un aumento del 21%), e non potranno ricevere adeguate cure se non lavoriamo subito per rendere più forti le risposte che già stiamo dando. Accenno qui ad esperienze, modelli, azioni da valorizzare e sostenere anche attraverso i Pon nazionali (e dentro un’opportuna manutenzione normativa):
•    Azioni di mediazione, formazione e servizi di collocamento che favoriscono un diverso approccio al lavoro delle assistenti familiari. E’ possibile svolgere queste attività dentro un corretto inquadramento previdenziale, sostegni formativi ed organizzativi utili sia alla famiglia che all’assistente familiare. E’ un settore su cui c’è bisogno di interventi normativi ed azioni mirate per favorire l’emersione del lavoro “nero” o “grigio” oggi largamente maggioritario. Noi abbiamo delle proposte sulle quali confrontarci. Ma non basterà solo il badantato e l’assistenza domiciliare.
•    Progetti ed azioni di vera innovazione sociale e tecnologica (anche attraverso la domotica sui cui il nostro sistema sta già avviando progetti importanti anche in partnership con il mondo profit), puntando su progetti di sviluppo di comunità che facciano emergere il capitale sociale dei nostri territori.

Voglio qui enfatizzare un tema troppo spesso sottaciuto: i disturbi dell’apprendimento. Solo dai nostri dati rispetto alle cooperative sociali che già operano con circa 80.000 studenti nelle scuole nelle 5 regioni meridionali, esiste una percentuale, sempre crescente, di persone con “disturbi dell’apprendimento”. Nelle esperienze pratiche oramai si ha una percentuale che oscilla dai due ai tre bambini o ragazzi per classe. E non esistono reti strutturate di servizi accessori o integrati sia per le forme lievi di tali fenomeni sia per quelle più gravi (si pensi ai casi gravi di dislessia).
E’ questa una piaga silenziosa ma sempre più ampia. La percentuale sta aumentando. Noi, anche su questo, abbiamo intenzione di sviluppare un percorso progettuale già avviato con uno dei nostri gruppi di lavoro; una nostra idea di intervento sistemico per le famiglie, le scuole, i territori che speriamo possa essere sostenuta sia da partner profit, sia da altri soggetti al fine di dare una risposta strutturale e codificata e soprattutto utile. Anche questa è una sfida che speriamo di vincere.

Tema povertà. Il 24% circa della popolazione Europea, quindi quasi 120 milioni di persone è a rischio di povertà o di esclusione sociale. Tra il 2010 e il 2013 in 19 Stati su 28 l’indice di povertà è cresciuto. L’obiettivo della strategia Europa 2020 di ridurre di 20 milioni il numero di poveri entro il 2030 rischia di essere messo fortemente in discussione. Aumenta la fragilità delle famiglie e di conseguenza la fragilità dell’infanzia; con un tasso del 27% i minori sono tra le categorie a maggiore rischio di povertà. E poi vi sono troppe famiglie che seppure non siano ancora povere sono poverissime di relazioni. La crisi, inoltre, ha fatto emergere nuove forme di povertà e l’esclusione prolungata e in taluni casi permanente dal mondo del lavoro, non solo da troppo tempo è un fenomeno rilevante, ma oggi è divenuta una vera e propria emergenza, che colpisce in particolar modo alcune fasce di popolazione.
 La crisi economica ha ulteriormente aggravato diseguaglianze, per cui chi già vive condizioni di povertà spesso vede aumentare le difficoltà di conciliare il lavoro con la necessità di assicurare assistenza e cura ai propri familiari, cosa questa che mediamente incide sui bilanci delle famiglie con una spesa che supera i 600 euro al mese.
La nostra idea è che non si risolve la povertà solo con gli aiuti alimentari. Questi sono ovviamente necessari, ma non sufficienti. E’ necessario fare di più sia dal punto di vista dei servizi sia rispetto alle politiche attive del lavoro.
Riteniamo che, a valle di questa nuova programmazione della (ex) social card che vedrà presumibilmente un piano di acquisti e distribuzione alimentare concretizzato già al prossimo settembre, sia necessario ed utile trovare la modalità per garantire anche i servizi sociali e sociosanitari dentro tale card. E che sia utile trovare un collegamento anche con le strutture di intermediazione (come i nostri consorzi a ciò dedicati) al fine di individuare opportunità specifiche di lavoro, anche dentro specifici programmi territoriali. Bisogna sostenere pratiche di condivisione delle risorse e mutualizzare alcuni consumi e servizi. Ad esempio intorno al tema dell'abitare servirebbe agire per ridurre i costi diventati eccessivi per alloggi e abitazioni, rendere maggiormente progressive le tassazioni su immobili, sviluppare e diffondere le diverse forme di approccio e gestione alle forme dell’abitare.
La povertà riguarda poi gli immigrati, spesso accolti in emergenza e non integrati. Il Pon integrazione non esiste più. Andrebbe recuperato così come sostenuti i fondi Sprar.

Voucher universale: come combinarlo
Da troppo tempo in Italia si è usato il trasferimento monetario come “compensazione o elemento risarcitorio” di una sofferenza, ma anche come modalità di collusione tra l’alibi della funzione pubblica che affida un po’ di soldi alla famiglia, e la tendenza tutta italiana di risolvere in forma individualista i problemi. Insomma un po’ come se si dicesse: tu dammi il denaro visto che ho un familiare non-autosufficiente poi ci pensiamo noi da soli, e così si è sviluppato il fenomeno delle “badanti”. Un approccio più sociale e responsabile invece deve promuovere uno stretto legame tra il denaro assegnato, i bisogni effettivi, la prestazione di servizio.
I riferimenti al voucher universale che si trovano nelle Linee guida per la riforma del Terzo Settore, si possano ricondurre ad un percorso di riflessione in corso da tempo sul tema dei servizi domiciliari per le famiglie (in particolare legato alla questione assistenti familiari); e potrebbe davvero dimostrarsi uno strumento interessante ed utile.
Ma il voucher va intanto meglio strutturato e poi va combinato con un’adeguata politica fiscale di detrazioni e deduzioni che premino le famiglie che curano.

Perché welfare e sviluppo territoriale
Abbiamo cominciato a discutere dentro la federazione su come connettere, collegare, il welfare allo sviluppo economico.
Il motivo di questa riflessione è per certi versi anche banale. Sappiamo, abbiamo appurato e ne siamo convinti, che il welfare non è un costo, bensì è un investimento. Investire in cultura, salute, benessere significa avere una popolazione (ed anche una forza lavoro se volessimo semplificare solo sul piano economico) più pronta, capace, in grado di reggere l’urto della competitività. Ma significa anche maggiore coesione e propensione a sostenere chi non ce la fa, chi ha bisogno. Ma tutto ciò ha un costo. Riguarda una massa monetaria (quella per il welfare) dentro il totale della massa monetaria italiana che non possiamo più aumentare come si faceva prima con la svalutazione né possiamo farlo con nuove tasse.

Allora il tema è come finanziare il welfare.
•    In parte lo abbiamo più volte detto con una migliore allocazione delle risorse; trasferire una misura minima di risorse dalla spesa sanitaria (la maggiore voce di spesa dei bilanci delle regioni) a quella sociosanitaria e sociale, anche solo l’1%, potrebbe paradossalmente liberare energie in questo settore come ad esempio una maggiore della componente medica al fine di evitare un’eccessiva sanitarizzazione della vita delle persone. Ridurre risorse in questo campo non significa ridurre le prestazioni, può anche significare ridurre gli sprechi, efficientare i processi. Trasferire una parte delle risorse al sociale ed al sociosanitario significa ridurre la domanda potenziale di cura sanitaria. Investire fortemente su un sistema di salute, cioè sulla ricerca del benessere delle persone, e non sul sistema sanitario (cioè sulla produzione di prestazioni o dispositivi farmaceutici) aiuterebbe a rendere più appropriata e più contenuta la spesa sanitaria e forse consentirebbe di privilegiare la prevenzione e la lotta alle diseguaglianze.
Se scaviamo a fondo, troveremo molti sprechi e molti modi di ricavare risorse. Quasi un milione al giorno : questa è stata nel 2012 la spesa della pubblica amministrazione italiana solo per acquisire licenze e software “su misura”. Se poi consideriamo anche i costi di assistenza informatica e manutenzione informatica la cifra raggiunge il miliardo di euro (fonte Sistema Informativo delle Operazioni degli Enti Pubblici). Si tratta di una voce di spesa esorbitante. Per valutarne l’incidenza basti pensare che la sola cifra per acquisto di licenze e software (circa 330 milioni di euro) supera del 10% ciò che lo Stato trasferisce a Regioni e Comuni per l’assistenza ai non autosufficienti, alla lotta alla povertà, e alla cura dei minori.
•    In secondo luogo, bisognerebbe riuscire a spendere i soldi che ci sono. Un caso su tutti è il fondo PAC gestito dal Ministero dell’Interno. Il meccanismo complesso di una regia nazionale, delle regioni e dei comuni ha di fatto bloccato tutte le progettualità presenti nei territori. Ci chiediamo, in casi come questi, se non sarebbe opportuno ridurre la filiera pubblica e coinvolgere direttamente il privato sociale? Lasciando magari ai livelli istituzionali solo il monitoraggio e la valutazione?
•    Bisogna poi che il welfare non sia vissuto, anche da noi cooperatori sociali, come oggetto di “trasferimenti monetari pubblici” e che sia ancorato di più al cofinanziamento ed allo sviluppo dei territori. Solo se il Pil di quei territori cresce, solo se le risorse sono ben allocate, solo se siamo in grado anche di trovare risorse aggiuntive, solo se vi è un nuovo protagonismo, solo in questi casi avremo la possibilità (o ci conquisteremo l’opportunità) di far si che sempre nuovi e/o più complessi diritti (alla salute, al lavoro, al benessere, alle relazioni sane, alla legalità etc.) possano essere anche tramite noi resi esigibili. In tal senso possiamo certamente aprirci a nuovi scenari (come abbiamo cominciato a tratteggiare in una prima pubblicazione che collega la cooperazione sociale allo sviluppo territoriale). Di risorse nei nostri belli e densi territori ve ne sono tante. Bisogna saperle scovare. Si tratta di beni pubblici da recuperare e riattare e da destinare a finalità di interesse generale, di prodotti della tradizione materiale ed immateriale, di aree destinate a possibili fonti energetiche rinnovabili, di beni ed imprese sequestrati alla criminalità etc. Tutte queste risorse “non monetarie” talvolta pubbliche e non affidate possono essere ricondotte a fattori di sviluppo economico e di rilancio sociale. Possono essere meglio gestite ed utilizzate a finalità pubbliche, possono essere connesse, gestite dentro piani complessi (o talvolta semplici) di rilancio; ed una delle finalità pubbliche può persino essere anche quella di cofinanziare (tramite parte dei ricavi prodotti, o tramite gli utili prodotti) singoli servizi di welfare territoriale.

Vedete, cari colleghi, queste direttrici sembrerebbero complesse ma già sono nati singoli esempi, già concretizzati nelle nostre esperienze, di sapiente combinazione di fattori legati allo sviluppo ed al welfare.
Il compito che ci attende è proprio questo: essere innovatori di territorio. Ma non basta più forse innovare nei singoli servizi o nelle singole filiere produttive (sebbene Luca Fazzi ci dirà che siamo i più innovatori di tutti).
Bisogna fare anche un passo ulteriore, certamente cadenzato ed inizialmente a basso ritmo, che è quello di aggiungere alla gamba del welfare quella dello sviluppo territoriale come vedremo nelle tre sessioni che seguiranno. Solo se sapremo costruire processi incrementativi, a spirale crescente, dove il welfare sostiene un nuovo sviluppo territoriale ed esso un nuovo e rafforzato welfare, potremo veramente sostenere le nostre comunità. Dovremo essere bravi a lavorare insieme agli altri, a sviluppare la nostra propensione orizzontale, territoriale, a costruire partnership adeguate, a pesare il giusto, quanto corrisponde al nostro impegno.
Forse, solo se saremo abili a presidiare la nuova competenza dello sviluppo territoriale, riusciremo anche a sostenere meglio quanto abbiamo sistematizzato in questi anni.
Così potremo rendere stabile il nostro cammino nel welfare del futuro, quella nel quale noi saremo certamente protagonisti.

Alcuni punti sul fronte della rappresentanza e sul fronte interno

Conferenza organizzativa

Nel 2013, con la Conferenza Organizzativa, Confcooperative ha avviato un iter di rinnovamento all’insegna di un’organizzazione sempre più vicina ai bisogni delle cooperative e l’avvio di una serie di iniziative rivolte ai soci (come ad esempio nel welfare integrativo). Le mie posizioni su tale percorso sono note anche perché sono tra quelli che sono intervenuti in quella fase auspicando un forte rinnovamento. Molte novità sono già in atto, anche nella struttura organizzativa attraverso un rinnovato modello e l’avvio di nuovi servizi.

Alleanza delle Cooperative Italiane settore Sociale
Per fronteggiare i cambiamenti, per rispondere alle nuove sfide, per rafforzare la rappresentanza, nel 2011 è stata avviata anche l’Alleanza delle Cooperative Italiane tra Confcooperative Legacoop e AGCI. Federsolidarietà, Legacoopsociali e AGCI Solidarietà, hanno costituito, il 2 ottobre 2012, l’Alleanza delle Cooperative Italiane nel Settore Sociale che rappresenta oltre 9.700 cooperative sociali e consorzi, 350mila persone occupate (comprese 35mila svantaggiate di cui la metà disabili) e oltre 6 milioni sono le persone assistite. Nel 2014, il percorso di integrazione ha avuto un deciso impulso con l’Assemblea costituiva dell’Alleanza delle Cooperative Italiane e un percorso che vede già le prime tappe nell’unificazione dei centri studi e delle rappresentanze a Bruxelles.

Sono grato ai miei colleghi Paola Menetti ed Eugenio De Crescenzo per avermi voluto alla guida, come Portavoce, dell’Alleanza delle Cooperative Italiane nel settore sociale. E’ un segnale importante ed è una responsabilità non piccola. Noi tutti insieme rappresentiamo oltre il 90% della cooperazione sociale. E’ un percorso importante e complesso per il futuro del movimento che ci sfiderà su obiettivi, metodi e risultati, identità, modelli, strumenti, risorse etc. Questa sfida richiederà un impegno forte, deciso e continuativo di tutta la classe dirigente della nostra rappresentanza. E’ una sfida bella, affascinante, è una prova di maturità, di lealtà, di costruzione, di contaminazione, di rigenerazione.
Su queste sfide la nostra cooperazione sociale, anche per il valore ed il peso che esprimiamo, dovrà profondere impegno e generosità.

Contratto collettivo Nazionale e suoi istituti
Abbiamo affrontato, come una delle prime azioni di questo mandato, il rinnovo contrattuale in una fase difficile, nel pieno della crisi economica. Siamo riusciti a chiudere la complessa trattativa che ha portato al rinnovo del CCNL. Alla fine riteniamo che insieme, Parti Sindacali e Parti Datoriali, abbiamo costruito un buon compromesso tra le rispettive pretese e necessità.
Con il nuovo CCNL abbiamo introdotto tre importanti istituti: l’apprendistato, la gradualità dell’incremento contrattuale (applicata nella stragrande maggioranza del territorio con accordi regionali), la sanità integrativa a carico delle imprese per i propri dipendenti.
Il terzo degli istituti introdotti (la sanità integrativa) ha trovato diversi ostacoli di diversa natura. Dapprima abbiamo ricercato delle formule di accordo con preesistenti Fondi Sanitari costituiti in altri comparti del lavoro in cooperativa. Ma le nostre attese sono state deluse. Siamo ripartiti dall’ipotesi di studiare la costituzione di un Fondo contrattuale specifico e nuovo.
Ad oggi per una complessità di ragioni, nonostante il nostro sforzo propulsivo che mai abbiamo fatto mancare, siamo ancora in una fase interlocutoria sia sulla governance di tale fondo che sull’individuazione dei soggetti gestori.
Con lo spirito di lealtà che ci anima, quando è stato posto il tema abbiamo sempre rimarcato nel tavolo contrattuale che per noi sono dirimenti, nella gestione della sanità integrativa, vista la natura del nostro modello d’impresa due aspetti:
•    La possibilità della nostra rete di gestire i servizi sanitari e sociosanitari;
•    La possibilità che la nostra Mutua nazionale Cooperazione Salute potesse essere soggetto gestore, certo non esclusivo ma per la quota che noi rappresentiamo, del fondo nazionale.
Entrambi gli aspetti, riteniamo, siano coerenti con la nostra vision ed anche le caratteristiche del modello cooperativo.
Ad oggi tuttavia non siamo riusciti a chiudere tra tutte le parti un accordo che tenesse conto di questi aspetti e di altri relativi alla governance del fondo.
Ora quindi dobbiamo cercare di uscire da questa empasse. In questo contesto va valutato il progetto della Mutua Cooperazione Salute lanciato da Confcooperative che è, lo ricordiamo e lo riconosciamo nettamente, un grande progetto del movimento cooperativo di Confcooperative, a cui possiamo contribuire e al quale attingere, ma non è un progetto del quale vogliamo appropriarci. È, e deve essere, un progetto confederale. Tuttavia alla luce di questo scenario, che vede al momento l’assenza di un fondo contrattuale è evidente ed opportuno che le cooperative considerino l’adesione al sistema di Mutua nazionale Cooperazione Salute, come la soluzione che oggi è in grado di garantire la tutela sanitaria a favore di tutti i lavoratori e che costituisce, quindi, uno dei modi per adempiere ad un obbligo contrattuale.

Livello organizzativo
Molti sono gli strumenti realizzati. Molte le attività. Abbiamo presidiato molti contenuti, costruito molti strumenti, messo a disposizione molte relazioni.
Abbiamo fatto questo lavoro grazie all’impegno di un gruppo di lavoro coeso e appassionato che non si è mai sottratto al compito ed a molte responsabilità, un gruppo fatto dai consiglieri nazionali, dai consiglieri della presidenza, dai vice presidenti di tanti che si sono messi a disposizione nei gruppi di lavoro. A tutti va un grazie sincero.
Ma resistenti e tenaci sono stati i nostri colleghi della struttura, il Direttore Vincenzo De Bernardo, ed i nostri funzionari Emilio Emmolo, Valerio Pellirossi, Silvia Pini per la Segreteria che hanno svolto moltissime attività, compiti, ed hanno assunto molte iniziative che si sono rivelate utili ed apprezzate da tutti noi. Con i consiglieri nazionali e di presidenza e con questa struttura molto capace che ha dimostrato contenuti, competenze, tenuta e coesione organizzativa abbiamo lavorato per fornire risposte alle sempre crescenti esigenze delle nostre aderenti.
Abbiamo provato ad essere sempre presenti per tutte le oltre 6.000 associate. Avremo nuove e più complesse sfide nel futuro, sarà certamente necessario ottenere un rafforzamento ed una maggiore valorizzazione del nostro team poiché il lavoro che ci attende nel prossimo mandato che si aprirà domani sarà enorme ed impegnativo.
Nuovi campi di impegno ci aspettano, nuove sfide, nuove progettualità e tante attese delle nostre cooperative che proveremo a non deludere.

 


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