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Se lo sweatshop diventa un reality

Arriva dalla Norvegia il reality che invia in cambogia tre fashion blogger a lavorare per un mese in una fabbrica tessile, utilizzate dalle grandi multinazionali del fast-fashion per produrre abiti, a prezzi di mano d’opera ridicoli

di Ottavia Spaggiari

Se dopo Emanuele Filiberto e Paola Barale, nel Campo i rifugiati dell’UNHCR in Congo, pensavate di averle viste davvero tutte e che la televisione non avrebbe più potuto sorprendervi, vi sbagliavate.

Viene dalla Norvegia, SweatshopDeadly fashion, il reality-documentario prodotto dalla web-tv di Aftenposten, il principale quotidiano del Paese, che fa luce sulla vita dei lavoratori nellefabbriche tessili a basso costo, utilizzate dalle grandi multinazionali del fast-fashion, per produrre grandi quantità di abiti, a prezzi di mano d’opera ridicoli. E per la sua inchiesta, Aftenposten, ha scelto di utilizzare un registro non convenzionale per un quotidiano nazionale così rispettato, quello del reality, appunto, giocando così con un contrasto stridente, pericolosamente in bilico tra un approccio innovativo all’informazione di qualità e il cinismo più spietato, ma che riesce perfettamente a farci capire l’impatto che hanno i nostri acquisti.

Inviati, per un mese in una fabbrica tessile in Cambogia, infatti, non un giornalista professionista, sotto copertura, ma tre giovani e popolarissimi fashion blogger norvegesi, costretti a vivere e lavorare, per 4 settimane, insieme alle persone che, fisicamente fabbricano gli abiti di cui parlano sui propri blog.

Un risveglio violento e molto poco glamour, per Anniken Jorgensen, Frida Ottesen e Ludvig Hambro,  catapultati nell’industria tessile cambogiana, la prima in assoluto per esportazioni, (rappresenta il 95%delle esportazioni nel paese), in cui lavorano circa 500 mila persone, costrette spesso a orari di lavoro e condizioni di sicurezza impossibili, testimoniati dall’alto tasso di incidenti sul lavoro, compresi incendi (si calcola che oltre il 57% delle fabbriche non abbiano uscite di sicurezza), crolli strutturali e cedimenti fisici, dovuti alle troppe ore di lavoro. In una fabbrica produttrice di abiti per il marchioH&M, nell’agosto 2011 il Phnom Penh Post, aveva riportato oltre 100 svenimenti dovuti “da fatica” e da intossicazione, a causa delle inalazioni delle sostante utilizzate nelle lavanderie.

Ed è proprio in una fabbrica/dormitorio di Phnom Penh, che sono stati inseriti i tre fashion blogger norvegesi. Qui hanno lavorato e vissuto, gomito a gomito, con gli operai cambogiani. Sveglia alle 5.30, dopo una notte passata a dormire sul pavimento e poi dritti alla propria postazione, fino a sera, per guadagnare solo 3 dollari al giorno.

“La verità è che noi siamo ricchi, perché loro sono poveri”, afferma Hambro nell’ultimo episodio di Sweatshop. “Siamo ricchi perché ci costa solamente 10 euro comprare una T-Shirt da H&M. Ma qualcuno deve soffrire la fame perché noi possiamo permetterci di acquistarla a questo prezzo”.

H&M ha rifiutato di essere intervistata ai microfoni di Aftenposten, ma ha reso noto un piano di aumento dei salari entro 2018.

E se la scelta di mandare tre ignari ragazzetti europei nell’inferno degli sweatshop, può sembrare una spietata spettacolarizzazione dello schiavismo attuato nei paesi in via di sviluppo, da parte delle grandi multinazionali occidentali, in realtà la web-serie si presenta più comedocumentario che reality ed è proprio la prospettiva offerta da questi tre consumatori acritici che rende la serie così efficace, offrendo all’uomo comune, una vera e propria mimesi, di quale sarebbe l’impatto reale se si venisse messi faccia a faccia con l’impatto dei propri acquisti.

A intervenire nella serie, anche Siang Yot, attivista locale per i diritti dei lavoratori nelle fabbriche. “Dobbiamo combattere con tutti noi stessi per migliorare la situazione” ha dichiarato, parlando con i tre protagonisti della serie.

situazione” ha dichiarato, parlando con i tre protagonisti della serie.

Lo scorso settembre le proteste dei lavoratori a Phnom Penh, hanno portato 8 grandi aziende, tra cui proprio H&M Primark e Inditex ad impegnarsi per aumentare il salario mensile a 177 dollari.

“Non si può risolvere tutto e mettere a posto per sempre un problema globale del genere”, ha dichiarato Jorgensen. “Ma queste persone non chiedono molto, solo un po’ più di soldi e dei ventilatori sul soffitto. Dobbiamo impegnarci a garantire almeno questo.”


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