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Paolo Del Debbio: «Sono uno sporco populista e me ne vanto»

Conduttore di Quinta Colonna su Rete 4, Paolo Del Debbio è considerato il capofila dei "populisti mediatici". Lui, dal canto suo, rivendica questa qualifica: "sono un populista, e non un palazzista e ne vado fiero". Un dialogo a tutto campo su politica, televisione e società civile con l'uomo che nel 1994 stese il programma elettorale di Forza Italia e, oggi, qualcuno dice prossimo alla candidatura a sindaco di Milano

di Marco Dotti

Toscano, classe 1958, studi in teologia, Paolo Del Debbio è uno dei volti più noti della televisione. Uno dei più noti e dei più criticati, ma lui risponde "ideologie!". Accusato di essere un populista, di "aizzare le piazze", di modulare le tonalità emotive del suo pubblico sulla frequenza "linciaccio" (Quinta Colonna, che conduce in prime time il lunedì sera tocca 1.410.000 spettatori con il 6.86% di share) al centro delle cronache Del Debbio c'è comunque. E non da ora. Nel 1991, pubblicò per i tipi del Sole 24 ore un libro titolato Il mercante e l’inquisitore. Il sottotitolo del libro era più che esplicito: Apologia della pubblicità commerciale. In quel lavoro – che al tempo suscitò un certo dibattito e fece storcere il naso a molti – Del Debbio affermava che la "piazza elettronica", capace di mischiare dimensione ludica, politica, religiosa, culturale e commerciale era in tutto e per tutto paragonabile all'agorà. Un paragone forzato? Di certo le cose sono andate come sono andate e oggi quella che appariva una realtà residuale occupa tutta la profondità di campo. Come l'agorà ateniese – scriveva Del Debbio – la tv commerciale riproduceva, in qualche misura, lo spazio consono allo sviluppo e alla pratica delle libertà. Erano gli anni della deregulation e Forza Italia – per la quale, nel 1994, Del Debbio stese il primo programma politico – era ancora in nuce. Lo abbiamo incontrato, considerandolo un osservatore privilegiato di quel "sommerso televisivo" che ancora

Sono passati molti anni da quanto lei pubblicò un volume che Luciano Canfora definì preda di "facile entusiasmo", evitando però di sottovalutarne l'impatto. Crede valga ancora la definizione che lei diede della televisione commerciale come di una "agorà elettronica"?

Credo sia ancora così, perché o è così o non funziona. E, invece, vedo che continua a funzionare. Funziona proprio secondo quella logica che, allora, molti criticavano, poi però – era inevitabile – ci sono finiti dentro, perché è una logica, appunto, non un accidente. Credo che la televisione, soprattutto quella commerciale, ha bisogno di raggiungere un pubblico vasto e deve vendere testi agli inserzionisti pubblicitari. Io sostengo che la televisione la si debba fare così perché altrimenti, semplicemente, non funziona. Poi, ognuno è libero di fare come e quello che crede, ma se i risultati in un'intrapresa commerciale devono pesare e pesano davvero, allora questa è la logica.

Se il criterio di misura è l'ascolto e l'inserzione pubblicitaria, questo criterio non farebbebbe una piega… Lei, però, è diventato uno dei bersagli preferiti dalla critica, non solo quella televisiva…
Su questi criteri, infatti, io vado bene. Non vado bene con la critica. Il problema dei miei rapporti con la critica è che la considero non una sorta di terza figura tra il pubblico e me. La considero, nel 70% dei casi, una critica ideologica e, quindi, non m interessa. Sono nemici, non critici.

Quindi lei divide il mondo tra amici e nemici?
No, non il mondo e nemmeno il piccolo, grande mondo della televisione. Io dico che ci sono posizioni ideologiche e posizioni veramente critiche. Le posizioni ideologiche sono quelle di chi assume una postura da tiro al cinghiale o alla lepre: è lì per impallinarti, il suo compito è quello. Considerare critica questo tipo di posizione è un eufemismo. Considerarla ideologica è un bagno di realtà.

La cosa che mi colpisce è che, dentro questa critica – ideologica o meno che sia – manca il livello superiore, quello della critica al mezzo. La critica le viene da chi si bagna nello stesso fiume, verrebbe da dire, non si sposta mai a un livello diverso…
Credo propri sia così. Non a caso, le critiche mi vengono in particolare da sinistra. Ma a sinistra, guardi un po'!, l'unico che mostra di capire le dinamiche della televisione e, infatti, è l'unico che sa usare è Matteo Renzi.

Che è uomo di sinistra, secondo lei?
Che sia di sinistra non lo so. So solo che non è di quella sinistra là, almeno per come si rapporta al mezzo. Sui fini sospendo il giudizio, non mi compete. Renzi ha una dimistichezza con la comunicazione e col mezzo che la sinistra, non solo quella partitica, non ha.

Ha colto il messaggio che lei lanciava nel '91: la tv commerciale come agorà.
Ha capito come si usa quella piazza, tutto qui. Non ci voleva molto, ma alla fine ci sono voluti più di trent'anni per trovare chi a sinistra ne capisse qualcosa.

Così, ci troviamo il segretario del PD su Rete 4 e Silvio Berlusconi su Rai3. Lei come ha visto Berlusconi, dimesso, dismesso, da saldi di fine stagione come ha detto qualcuno? O è finita anche l'epoca dei saldi?
Ho visto Berlusconi, non ci ho visto un altro. Ovviamente, non è più il Berlusconi del 1994. È un Berlusconi che pensa più all'eredità che al progetto.

Quindi continua, il progetto berlusconiano?
C'è un piccolo fraintendimento, perché Berlusconi è un leader non ripetibile, come quasi tutti i leader. Berlusconi, però, non è solo un leader è anche un fondatore e i fondatori lasciano le cosiddette fondazioni. Questo non è stato fatto, quindi non so che cosa succederà, non lo sa nessuno.

C'è chi vede in Renzi la garanzia che il berlusconismo continui – ovviamente sussunto nelle personalità e nelle dinamiche di Renzi -anche in assenza di Berlusconi. In qualche modo, potremmo dire che la lezione è stata assimilata…
L'aria è cambiata e molto è dipeso dall'introduzione di un linguaggio nuovo, dall'immersione in un contesto diverso, dalla ricomposizione dello spazio pubblico a cui ha contribuito indubbiamente la televisione commerciale. Molto è dipeso anche dall'importanza assunta dai programmi. Quei programmi che, prima del 1994, c'erano ma erano astrusi. I dibattiti politici ante-1994 erano tutti interni, tutti in politichese, difficilmente si ragionava o si dibatteva con formule chiare e comprensibili – "meno tasse", "dove sono i soldi", "80 euro", etc. Oggi, poi, la questione della leadership appare quasi naturale e ha preso una sua consistenza nell'agorà.

In quest'agorà, però, regna il populismo e lei è additato come uno dei suoi profeti… Ricordo che nel 1991, uno dei pochi a accorgersi della natura performativa dei talk show fu Walter Pedullà, storico della letteratura dell'Università di Roma, poi Presidente della Rai, che affermò: “nei talk-show si allena il modo di pensare e di parlare di un popolo”.
Io preferisco essere populista che "palazzista". Quando mi danno del populista, non mi offendo. Prefisco guardare le cose dal popolo, che dal palazzo. Certo, se "populista" significasse inanellare una serie di bugie, allora non mi riconoscerei. Ma se populista significa – come significa – guardare le cose dalla parte del popolo minuto, allora io sono e orgogliosamente rivendico l'appellativo di populista.

E da questo suo occhio populista, lei che Italia vede?
Vedo un'Italia che soffre, ma guarda avanti. Che soffre ma tenta di capire se si piò davvero fidare di Matteo Renzi. Un'Italia che vede l'addio di SIlvio Berlusconi come una perdita di riferimento. Un'Italia che si guarda attorno e si chiede: "di chi mi posso fidare?". E poi vedo 10milioni di italiani che soffrono molto economicamente, questi mica me li invento io.

Insomma, Paolo Del Debbio guarda la società civile…
Io non la chiamerei "società civile", perché il termine è stato un po' storpiato. Mi è capitato, tanto per fare un esempio, di andare a un incontro sulla "società civile" e ci ho trovato dei banchieri. Che società civile sarebbe, quella dei banchieri? Io preferisco parlare di popolo e nel popolo ci sta dentro un po' tutto.

Un esempio? Che cosa ci sta in questo "tutto"?
Ci sta dentro, un certo mondo associativo. Ci sta dentro un certo mondo che un tempo avremmo chiamato del terzo settore o del non profit e che ora non capisce nemmeno più se possa chiamarsi così. Un certo mondo che non è né Stato, né mercato ma rischia di essere schiacciato tanto dallo Stato, quanto dal mercato.

E le banche non possono essere né Stato, né mercato?
Per come vanno le cose, una banca è tanto Stato, quanto mercato

E la politica? Non le pare abbia infiltrato a livello oramai parossistico i vertici che fanno da tappo alla parte migliore di questo associazionismo?
Mi pare di sì, sono la società incivile che parassita la società civile. Ma attenzione, non è solo una questione di comunicazione. Non è, intendo dire, questione far più spazio o dar più spazio a quella parte di "società civile" su cui hanno messo il cappello i trombati della politica, oramai è questione di fastidio. C'è chi non ne può più e chi non ne può più è il popolo, il popolo minuto.

Da dove ripartirebbe, allora, il fiero populista Del Debbio?
Io credo che la società civile – chiamiamola per un istante così – se è buona non è manipolabile. E se non è manipolabile, alla politica e alla comunicazione che le va dietro non interessa. Oggi chi parla più di sussidiarietà, di solidarietà, di associazionismo, di mutualismo? Ne parlate voi, pochi altri, ma poi? Io ripartirei da qui. Dobbiamo far saltare il sillogismo, dobbiamo martellare, dobbiamo rompere le scatole.

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