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Santos (Osce): «Si deve andare verso la libera circolazione dei migranti in Europa»

Intervista alla la presidente della Commissione diritti umani dell’Assemblea parlamentare dell'Osce in occasione della sua visita in Italia: «Il regolamento di Dublino va cambiato, poi occorre lavorare nei paesi di origine e transito, e fare una cooperazione vera, nell'interesse delle persone prima che delle aziende e dei governi»

di Giacomo Zandonini

da Catania –

“Possiamo nascondere la testa sotto la sabbia, chiuderci come ostriche, oppure affrontare i problemi. Questo è il momento per farlo”. Nelle scorse settimana la presidente della Commissione diritti umani dell’Assemblea parlamentare Osce, Isabel Santos, ha visitato alcuni dei luoghi centrali delle recenti cronache sull'immigrazione, dalla stazione Tiburtina di Roma a Lampedusa, passando per il maxi-Cara di Mineo. Per la parlamentare portoghese, che dirige l'ufficio umanitario dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa dal 2013, le migrazioni forzate sono il banco di prova per il rispetto dei diritti umani a livello internazionale. Al centro, ha spiegato a Vita a margine della visita a Mineo, deve esserci una “vera libertà di circolazione a livello europeo”. L'UE uscita dal Consiglio Europeo del 25-26 giugno sembra però andare in un'altra direzione.

Onorevole Santos, è appena stata in alcuni dei luoghi più noti alle recenti cronache italiane, accompagnata dalle deputate italiane De Pietro e Tidei. Da dove nasce questo impegno?
Nel 2014 la senatrice De Pietro e io abbiamo presentato due risoluzioni all’Assemblea parlamentare dell’Osce. Chiedevamo una riforma complessiva della normativa sull’immigrazione dell’UE, soprattutto del regolamento di Dublino, e un investimento concreto sull’accoglienza e l’integrazione dei rifugiati in tutti i 57 gli stati membri dell’Osce. Per questo siamo venute in Italia, e per questo a gennaio ho visitato la Turchia: lì ci sono due milioni di rifugiati, il 90 per cento sono siriani. L’emergenza, se così vogliamo definirla, non riguarda solo l'Italia, né tantomeno l'Europa del sud.

Oggi prevalgono venti di chiusura, idee di respingimento. Cos’ha trovato, e cosa auspica?
Sono stati giorni molto intensi. Di recente ho visitato Guantanamo, una realtà completamente diversa. Ma, mi creda, quello che ho visto in Italia mi lascerà un segno. Ho incontrato persone che hanno vissuto traumi enormi, violenze nei loro paesi e durante il viaggio. Per rispondere ai loro bisogni, dobbiamo pensare a un approccio globale, che tenga conto di aspetti complessi. Qui a Catania il direttore della Caritas ci diceva che il 35 per cento della popolazione vive in povertà relativa e il 15 per cento povertà assoluta: è chiaro che i poveri hanno remore, temono che l'immigrazione porti ulteriori disagi. Pensare in modo globale significa sostenere anche le comunità locali, comprendere cosa vivono e evitare la "guerra fra poveri". In poche parole, essere equi.

Se le paure dei poveri si possono comprendere, è più difficile comprendere quelle dei "ricchi", delle istituzioni europee. Cosa dobbiamo dire all'Unione Europea, che rappresenta la maggioranza degli stati membri dell'Osce?
Ricordiamo una cosa: chi arriva via mare fugge da guerre, morte, miseria e chiede solo una nuova opportunità, non chiedono soldi né assistenza. All'indomani della Seconda Guerra Mondiale l'Europa era piena di rifugiati. Eravamo noi e altri ci hanno detto di sì. Oggi ci sono più rifugiati nel mondo di allora, per la prima volta, e l'85 per cento è in paesi in via di sviluppo. Non possiamo dire di no a chi arriva. Dobbiamo lavorare nei paesi di origine e transito, e fare una cooperazione vera, nell'interesse delle persone prima che delle aziende e dei governi.

Ad esempio?
Penso a fare campagne informative, per spiegare a chi vuole intraprendere questi viaggi che l'Europa non è il paradiso. Chi poi vuole farlo veramente, oppure non ha altra scelta, deve trovare dei canali legali. Per venire alle decisioni dell'UE: sono convinta che il sistema di Dublino vada cambiato e che l'idea delle quote ponga qualche problema: non parliamo di numeri ma di persone e, in ogni caso, la sovrapposizione fra “Dublino” e la distribuzione per quote potrebbe potrebbe portare a diversi problemi. Credo poi che si debba andare verso una libera circolazione reale delle persone. Insomma, servirebbero decisioni politiche coraggiose, che fino ad oggi nessuno ha preso.

Pensa ci sia spazio per proposte nuove all'interno degli organi decisionali?
Certamente e le faccio un esempio: il sistema dei visti andrebbe reso più flessibile ed esteso, in modo da facilitare l'ingresso legale e protetto delle persone. Più visti per la riunificazione famigliare, elemento di integrazione molto importante, più visti per lavoro e per studio. Le cito una piccola iniziativa del governo portoghese, che ha dato un visto per studio a 70 giovani siriani rifugiati. Questa è vera cooperazione: sono ragazzi che, lo speriamo, potranno un giorno ritornare in Siria con competenze migliori. E l'unico modo per combattere i trafficanti, in definitiva, è creare vie legali di ingresso in Europa.

Concludiamo con una nota sull'Italia. Cosa le è rimasto più impresso di questa visita?
Essenzialmente due cose: come già dicevo, la sofferenza dei migranti che ho incontrato. Persone che, però, arrivano con una sola cosa in valigia: la speranza. In secondo luogo mi ha colpito la dedizione di volontari, professionisti e cittadini, che per esempio a Roma, attorno alla tendopoli allestita alla stazione Tiburtina per i giovani eritrei, si prodigavano per far avere il necessario, cibo, vestiti e amicizia. Gesti che aiutano l'integrazione, difficile in un contesto come quello del Cara di Mineo. E di cui dovrebbero beneficiare tutti, al di là di un'ipotetica divisione fra rifugiati e migranti economici: chi scappa dalla povertà, infatti, rischia la vita quanto chi scappa da un conflitto.


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