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Neet, per la prima volta li conosciamo veramente

L'associazione WeWorld, in collaborazione con il Cnca e la rivista “Animazione sociale” ha presentato la prima indagine sul fenomeno dei ragazzi che non studiano né lavorano. L'indagine è stata condotta grazie alle interviste di Ipsos a oltre mille ragazzi tra i 18-29 anni

di Vittorio Sammarco

Ghost, fantasma. Sono giovani che “non studiano, non lavorano o non si formano” (i Neet, nell'acronimo inglese) sono invisibili perché non lasciano tracce. E allora l'associazione WeWorld, in collaborazione con il Cnca e la rivista “Animazione sociale”, li ha ascoltati e studiati, nella prima indagine presentata oggi a Roma.

“Usare genericamente questa terminologia è pericoloso”, affermano, perché è un contenitore di situazioni assai diverse, con generalizzazioni ed etichette in senso negativo e situazioni specifiche troppo facilmente rese omogenee.

A cominciare dai numeri. Quanti sono? Se si prende la fascia di giovani tra i 18-29 anni, nel 2014 sono stati 2,328 milioni; se si estende la fascia dai 15-34 aumentano fino ad arrivare ai 3,512. Tanti, tantissimi, contro una media Ue del 16,5 per cento, l'Italia supera il 27. Con una rilevante differenziazione sul territorio tra la media del 20 al Nord e del 35 al Sud. Prevalentemente maschi, che già sono più a rischio delle femmine anche per la dispersione scolastica (che nel nostro Paese tocca ancora il 15 per cento degli studenti che non conclude il percorso scolastico di primo o di secondo grado, contro una media dei 28 paesi UE dell'11,7 e che pone l' obiettivo di assestarsi entro il 2020 al 10).

Proprio la dispersione scolastica, per i ricercatori di WeWorld, è la principale causa di correlazione che determina il fenomeno dei Neet: 1 ragazzo su 4 ha alle spalle un percorso scolastico chiuso con un abbandono prematuro (segnato da bocciature, interruzioni, cambi di indirizzo), seguito, nelle cause, da altri fattori come, condizione economica e sociale d'origine, la situazione famigliare e personale, il contesto economico nazionale. Soprattutto la famiglia, “assume un ruolo determinante e quasi determinista: genitori con un titolo di studio basso avranno con ogni probabilità figli poco istruiti”. Due blocchi principali costituiscono l'indagine. Il primo sono le storie, il racconto diretto dei giovani per capire i motivi, le ragioni di questi percorsi negativi. Sono stati ascoltati 42 ragazzi in sette città (Torino, Milano, Pordenone, Palermo, Napoli, Roma, Bari), ed emergono alcuni profili interessanti, anche per il mondo della società civile. Nelle storie dei Neet è poco presente la partecipazione a realtà associative e gruppi organizzati, anche su temi potenzialmente interessanti come la tutela ambientale, lo sport, l'impegno sociale e solidaristico; la scuola appare poco presente e viva, non entusiasma per nulla, no ci sono persone/maestri che abbiamo lasciato anche un minimo segno; quasi del tutto assente esperienze serie di orientamento scolastico, sia nel passaggio verso le superiori sia verso percorsi successivi; permanenza prolungata di vita nella famiglia di origine che, secondo gli studiosi, è uno dei motivi di rallentamento della crescita del nostro Paese. Da qui una riflessione più ampia e delicata.

Dalle interviste i ragazzi “ci dicono che stanno soffrendo e che è una sofferenza che non trova espressione, che resta nel chiuso delle esperienze personali, che si può risolvere solo o con lo scatto individuale o con l'aiuto della famiglia”, ha affermato il ricercatore Roberto Maurizio. “Non c'è una visione che questa loro sofferenza sia compresa e considerata. Al di là dei numeri, dei dati, questo è il primo grande problema: la percezione della loro sofferenza. Un sentimento di ingiustizia che diventa sentimento di inadeguatezza personale e non di contestazione, perciò non scendono in piazza”. Un gruppo di giovani – aggiunge – che cresce senza guide, punti di riferimento, che siano capaci, non solo a parole, di “stare con te nelle strade da prendere”, quindi che hanno un livello di autostima basso, con famiglie vicine ma non sufficientemente presenti. Un futuro che fa paura, “un buco nero”, che non si riesce neppure ad immaginare. Giovani di cui non ci accorgiamo? Che si nascondono? Che abbiamo bisogno di incontrare e di costruir con loro i percorsi di inclusione sociale. Come? Promuovendo Esperienze pilota interessanti che in giro per il territorio ci sono; facilitando l'accesso alle possibilità, di entrare in rapporto con qualcosa o qualcuno capace anche di far vivere esperienze entusiasmanti non immediatamente attinenti alla scuola, ma che consentano il recupero dell'autostima; Valorizzando le eccellenze e le competenze che esigono anche nel mondo dei Neet; valorizzando le capacità creative, di immaginazione e creazione garantendo loro la possibilità di provare a tradurre quelle Idee in progetti concreti. “I giovani Neet vanno agganciati con percorsi di natura. psico-sociale”, conclude il ricercatore coordinatore dell'indagine, “vanno scovati lì dove sono, piazze, bar, ciò operatori preparati, tentando una impresa faticosissima, restituire un po' di fiducia nel mondo degli adulti da cui si sono sentiti traditi”.

Secondo blocco: è stato studiato tutto l'universo giovanile, innestando su un contesto più generale questa ricerca specifica sui Neet. Per questo sono stati intervistati 1000 giovani tra i 18-29 (dall'Ipsos di Pagnoncelli). Conclusioni: si può purtroppo dire che “l'Italia non è un Paese per giovani”. Al di là dei dati, sono alcuni elementi di fondo che allarmano: sono giovani che pur ritenendo in teoria la scuola determinante per l'inserimento nel mondo del lavoro, la considerano inutile per il proprio percorso, per chi lavora determinanti sono state le conoscenze giuste; sono pessimisti, l'88 per cento ritiene che siano scarse o limitate le possibilità per un giovane di trovare lavoro; poca fiducia negli altri e nella politica in particolare, anche se è ormai ribaltato il rapporto con gli amici, oggi sono i genitori (e in particolare la madre) a suscitare più fiducia; spesso quindi ripiegati su se stessi con poche aspettative, e poco capaci di affrontare il mondo circostante e di affrontare le sfide della complessità. “Una generazione che rischia di diventare uno «scarto»”, ha detto Nando Pagnoncelli, “che vive davvero il pericolo di una situazione che li vede fuori da qualsiasi inserimento in un ruolo sociale, senza un progetto e un sostegno serio”.

Cosa fare allora? La risposta delle organizzazioni del Terzo settore viene proprio da Marco Chiesara, presidente di WeWorld. “La direzione verso cui stiamo andando è quella giusta: l'idea è non solo di individuare dati numeri, ma tracciare delle linee di azione e intervenire direttamente sporcandosi le mani. La prevenzione passa per il sostegno dei ragazzi a scuola, riducendo se non eliminando la dispersione scolastica”. E aggiunge: “Solo costruendo stabili relazioni tra scuola, famiglia e territorio è possibile creare un ambiente favorevole al recupero dei ragazzi più fragili, a rischio di abbandono”. In buona sintonia è la risposta delle istituzioni: Anna Maria Leuzzi, del Miur: “Siamo finalmente in possesso dell'anagrafe degli studenti e abbiamo fatto un passo avanti notevoli anche sul Sistema di valutazione. Le amministrazioni che hanno competenza per prevenire la dispersione, anche a livello locale, hanno consapevolezza della gravità della situazione (pur migliorata negli ultimi anni) e stanno approntando azioni di contrasto. Il punto è quali di queste possono avere risultati ed effetti?”.

Dalle prime analisi del governo emerge che dal 2008 si è lavorato tanto sull'asse prevenzione dispersione e miglioramento delle competenze chiave, soprattutto in quelle regioni in ritardo di sviluppo. “Abbiamo sviluppato – ha detto la Leuzzi. – un progetto di rete che ha avuto il pregio, con un coinvolgimento di circa un milione di studenti, della Collaborazione in partnership di Comuni, associazioni di volontariato, esperti in materia e altre istituzioni. Per un anno e mezzo hanno lavorato insieme con un processo lungo, e un modello di lavoro che ha messo insieme scuole con tasso di difficoltà diverse”. Un lavoro pronto per la valutazione finale (ha annunciato l'ipotesi di una iniziativa a gennaio).

Da dati positivi di questa esperienza/progetto (che ha definito “approccio laboratoriale”). Si parte per continuare anche in quest'anno è con i Pof 2014-2020. “Pensiamo di agire su diversi fronti” ha detto la Leuzzi: sulle strutture e sulle competenze. Azioni specifiche contro la dispersione che saranno uno degli obiettivi principali. “Sono pronte – ha detto – circolari per far partire le azioni in questo anno scolastico, non solo nelle ore scolastiche, ma anche per sostenere i Centri provinciali per l'educazione permanente, che possono dare sul territorio risposte forti anche per recupero degli adulti con scarsa formazione. Si punta all'Educazione permanente attraverso strutture stabili e funzionanti sul territorio”. Marianna D'Angelo, del ministero del Lavoro, DG politiche attive: “con Garanzia giovani pensavamo di raggiungere oltre 570mila Neet, ne abbia contattati 400mila indirizzandoli verso misure di rapporto con il mondo del lavoro. Continuano le registrazioni in un numero di circa 15mila al mese. Occorrerebbe un milione di euro per tentare di accontentare le aspettative che si creano con questa registrazione”. Stiamo aggiornando le banche dati per “profilare meglio i soggetti” ha concluso, “e provare a rispondere in modo più accorto alle diverse situazioni, visto anche che abbiamo scoperto un livello di scolarizzazione molto più basso di quello che ci aspettavamo”.


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