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Il testimonial fa bene al Terzo settore?

Utile forse, ma non necessario, il "personaggio famoso" impegnato in campagne sociali non sembra portare effetti positivi sul lungo termine. Siamo sicuri che la ricerca di risorse affidate a un volto noto non spinga la "buona causa" e l'associazione nel retroscena? Perché lamentarsi, allora, se anziché temi, cerchiamo di imporre personaggi?

di Marco Dotti

Nel settore pubblicitario, il testimonial è un personaggio pubblico – "di chiara fama", si sarebbe detto un tempo – chiamato a reclamizzare un prodotto. Negli anni in cui "fare Terzo settore" era impresa da pionieri, i testimonial hanno svolto un ruolo importante, non certo vendendo prodotti ma veicolando attenzione su temi, cause, problemi. Con ricadute positive per tutto il settore. Hanno aperto strade, in un mondo ancora molto polarizzato attorno a una fruzione calda di un medium prevalentemente freddo come quello televisivo.

Se il testimonial si divora lo spazio

Oggi, però, i tempi sono cambiati e chi volesse mantenere il proprio ruolo da pioniere dovrebbe farlo in relazione a questi tempi non a quelli che furono, al contesto e all'ambiente in cui si trova a operare. Ciò nonostante, la televisione svolge ancora un ruolo primario nei contesti dell'informazione, considerando che gli italiani guardano in media 255 minuti di televisione al giorno e gli ultrasessantaquattrenni arrivano a 7 ore.

Eppure, dai dati di una ricerca del professor Marco Binotto emerge che nel 2015 solo lo 0,96% dell'informazione televisiva è stata dedicata al Terzo settore. Nel 2012 la media era dell'1,61%. In sostanza, il tempo offerto mediamente ogni giorno dai principali tg nazionali alla rete del Terzo settore è di complessivi 23 secondi. Un'impressione è che i testimonial attraggano, ma al tempo stesso cannibalizzino il già risicato tempo lasciato al sociale in televisione.

Darwinismo nel sociale?

In un contesto ampiamente competitivo, il testimonial è paradossalmente considerato decisivo nella competizione che – siamo franchi – non è più fra indifferenza e impegno rispetto a una buona causa, ma tra una causa e l'altra. Detto con un po' di banalità, ma fuori dai denti: chi ha il testimonial più famoso appare in tv e chi appare in tv si accaparra il testimonial più famoso. Ma siamo certi sia un bene? Forse per il fundraising lo è, ma sul medio-lungo periodo, proprio perché nel frattempo è mutato lo spazio-tempo dei media, che cosa rimane? Rimane ben poco, perché la figura del testimonial da sussidiaria è diventata sempre più ingombrante e si è divorata la scena.

Sposare una causa o servirsene?

Un'altra distorsione data dall'abuso di testimonial è la percezione diffusa che attribuisce la buona causa a quel testimonial, non all'associazione che si trova in un dato contesto a rappresentare.

Spesso, poi, le esigenze di personal-branding, specie dopo una "caduta" (un calciatore implicato in giri di scommesse, un atleta "beccato" a far uso di sostanze dopanti) spingono i consulenti stampa a investire sulla "ripulitura" dell'immagine pubblica del loro cliente e a contattare direttamente le associazioni, offrendo il personaggio per le loro campagne. In questo processo completamente capovolto, il sociale è solo l'appendice di un personalissimo investimento reputazionale, quando non, sic et simpliciter, terreno di ripulitura dell'immagine, il cosiddetto greenwashing.

Utile forse, ma non necessario il testimonial non porta, a mio avviso, effetti positivi sul lungo termine al Terzo settore. Siamo sicuri che la ricerca di risorse affidate a un volto noto non spinga la "buona causa" e l'associazione nel retroscena? Una comunicazione sociale integrata dovrebbe guardare altrove e porsi obiettivi più ambiziosi. Per contare e innovare di più, il Terzo settore deve scoprire quello che è: protagonista, non comprimario. Imporsi come fonte e come claim-maker: segnare il passo, non farselo imporre.


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