Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Cooperazione & Relazioni internazionali

Cli-fi. Riscrivere il futuro del mondo con l’econarrativa

Se non possiamo riscriverlo, qui e ora, il futuro non ci sarà. Nasce in questo modo, dalle macerie della science-fiction e spesso confusa tra fantasy, romanzi young adult e distopie 2.0, la climate-change fiction, o cli-fi, che proprio a questo punta: cercare una via d’uscita partendo da dove non te l’aspetteresti, dalla letteratura come strumento per cambiare, non solo per capire il mondo

di Marco Dotti

Quando avete eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa rimanga, anche se improbabile, avrà il sapore della verità. E forse le cose stanno proprio come le vedeva Mack Reynolds, pioniere, negli anni Sessanta del secolo scorso, della fantascienza di matrice sociale, oltre che militante del Partito socialista degli Stati Uniti d’America.

Oltre a fiction

Nel XX secolo era toccato alla science-fiction l’ingrato compito di confrontarsi con una (allora) improbabile apocalisse ambientale. Surriscaldamento, alluvioni, scarsità di acqua e di cibo, deflagrazioni nucleari. Tutti gli elementi, acqua, aria, terra, fuoco, contribuivano ad alimentare un immaginario distopicamente imbevuto di futuro.Poi qualcosa è successo. È successo che le lancette si sono spostate e l’Ecological debt day (Edd) ha consumato le tacche sul calendario. Immaginare non serviva più, bastava guardarsi attorno. Se nel 1987 il giorno in cui si considerano esaurite su scala globale le riserve energetiche dell’anno e si inizia a vivere a debito rispetto alle generazioni future è caduto il 19 dicembre, per il 2015 l’Earth overshoot day è stato raggiunto quattro mesi prima, il 13 agosto. Non bastasse, ci informano i climatologi, il 2015 è stato l’anno più caldo di sempre, da quando la temperatura del pianeta viene monitorata. Come dire: non c’è più bisogno di profezie, basta guardarsi attorno.

Così, anche la fantascienza è rimasta indietro rispetto a un mondo che, confermando le più amare previsioni di Philip Dick o di J. G. Ballard, le ha depotenziate. Oggi nessun altro Ballard è possibile: l’improbabile è diventato probabile, l’impossibile ha assunto la concretezza del possibile. Come parlare, allora, di futuro, ora che il disastro ha il sapore della verità di cui parlava Reynolds? E poi: quale futuro?

Se non possiamo riscriverlo, qui e ora, il futuro non ci sarà. Nasce in questo modo, dalle macerie della science-fiction e spesso confusa tra fantasy, romanzi young adult e distopie 2.0, la climate-change fiction, o cli-fi, che proprio a questo punta: cercare una via d’uscita partendo da dove non te l’aspetteresti, dalla letteratura. E anche se qualcuno contesta che la cli-fi (l’etichetta è da attribuirsi al giornalista-attivista Dan Bloom, che la usò per la prima volta nel 2007) possa definirsi a stretto rigore un genere, di certo è un trend in fortissima crescita, in termini di presa di coscienza, e non solo di consumo librario.

Con l’immaginazione puntiamo a trasformare il futuro, osserva l’autrice Sarah Holding

Ai confini della realtà

Anche se, a dire il vero, già nei primi anni Sessanta del XX secolo c’era chi prefigurava maree alte come l’Empire State Building, glaciazioni post atomiche, mostri transmoderni che si risvegliavano dal ventre della terra per le macchinazioni dei nipotini di Stranamore. E c’era chi, come Rod Serling, aveva capito tutto. Scrittore, poi ideatore, sceneggiatore e infine produttore di una delle serie televisive più longeve quanto a influenza sull’immaginario, Twilight Zone (Ai confini della realtà), Serling descrisse un pianeta devastato dal surriscaldamento climatico. L’ambiente era al cuore di qualcosa che non si poteva classificare né come utopia, né come distopia: non ci sono altri mondi possibili, non c’è un futuro da decolonizzare, solo un presente da capire, a scanso di guai. Per il Rod Serling de Il sole a mezzanotte il surriscaldamento genera in sé e per sé mostri sociali, almeno finché permette ad alcuni di sopravvivere e ad altri di ben vivere, a discapito dei primi. Furti, divisioni, crimine, stati di eccezione. Insomma, un paradossale, ma non troppo, ritorno allo stato di natura, se è vero che – già il filosofo Thomas Hobbes lo insegnava secoli fa – stato di natura è la condizione di terrore in cui rischiamo costantemente di cadere. Sceneggiato e mandato in onda il 17 novembre del 1961 come settantacinquesimo episodio della terza serie di Twilight Zone, il Sole di mezzanotte è in qualche modo antesignano della cli-fi.

Ma perché l’eco-fiction (come la chiamano altri) abbia pieno riconoscimento, ci vorrà ancora mezzo secolo e un romanzo, Solar (Einaudi 2010), che porta la firma di Ian McEwan, autore certo non di genere. Il punto chiave del libro lo riassume bene il protagonista, il fisico Michael Beard: «Come possiamo diminuire e far cessare i nostri consumi continuando a sostenere la civiltà, sottraendo alla miseria milioni di individui? Non certo con comportamenti virtuosi, non certo differenziando lo smaltimento del vetro, abbassando il termostato in casa o acquistando un’auto più piccola. Tutto ciò può giusto rimandare il disastro di un paio d’anni».

Stati di paura

In sostanza, ricorda McEwan, non basta sfilare uniti e colorati, produrre hashtag o disegnarsi arcobaleni sugli zigomi, perché «la faccenda coinvolge qualcosa che va al di là della sola virtù, perché la virtù è limitata, passiva. Può essere di incentivo per il singolo, ma quando si tratta di gruppi, di sistemi sociali, di una civiltà intera, allora è una forza insufficiente. Le nazioni non sono mai state virtuose, sebbene si possano a volte convincere del contrario. A livello di massa, l’avidità ha la meglio sulla virtù». E poi: «Ecco perché dobbiamo integrare di buon grado nelle soluzioni al problema il nostro incontenibile impulso all’egoismo, oltre che festeggiare la novità, il brivido dell’inventiva, il piacere di ingegno e cooperazione, le soddisfazioni del profitto. Petrolio e carbone sono vettori energetici e, in teoria, lo è anche il denaro. Perciò, la risposta a quell’interrogativo cruciale è ovviamente là dove il denaro, il vostro denaro, deve scorrere: in un’energia pulita e accessibile».

Un bel problema, insomma. Ma a rendere avvincente la cli-fi è proprio il fatto che si rivela non solo capace di descrivere la situazione contingente, ma anche di riscriverla e, per questa via, di scongiurare la catastrofe finale. O almeno ci prova e, visto come stiamo messi a militanze varie, non è cosa da poco. Ben inteso, la torsione apocalittica non manca: anzi, è imminente (pensiamo ai libri della canadese Margaret Atwood o a Stato di paura di Michael Crichton) oppure in progress (come nel Paese delle cose ultime di Paul Auster, anch’esso da annettere alla cli-fi) o, più semplicemente, è già avvenuta, come nell’influente Polar City Red di Jim Laughter.

E insieme all’apocalisse prossima ventura, resta costante la denuncia della deriva tecnologica. Ne La ragazza meccanica (Multiplayer edizioni, 2014), per esempio, lo statunitense Paolo Bacigalupi racconta di una Bangkok dove le calorie sono diventate la valuta corrente, il terrorismo è bio-terrorismo e cacciatori di cibi estinti si muovono in incognito come vecchi cercatori di tesori. E nella trilogia di MaddAddam (L’ultimo degli uomini, L’anno del diluvio, L’altro inizio, tutti editi da Ponte alle Grazie), Margaret Atwood arriva a prefigurare un diluvio senz’acqua, in un mondo post-secolarizzato segnato dal culto di individui transumani.

Oltre la tecnofobia

Tecnofobia a parte, però, quello che caratterizza la cli-fi è che alla messa in narrazione del mutamento climatico corrisponde una spinta all’azione: il lettore è chiamato a capire e a intervenire, per quel che può, come può. Anche in forma di parole. Anche se non basta. Perché, come scriveva sul Guardian una decina di anni fa lo studioso e grande viaggiatore Robert Macfarlane: «Gli effetti del cambiamento climatico diventano percepibili nei termini del linguaggio così come lo sono in termini di gradi Celsius».

Proprio l’ideatore dell’etichetta cli-fi, Dan Bloom, in un articolo pubblicato il 27 luglio 2015 su Medium, ha rilanciato una domanda, tornata poi alla ribalta nei giorni della Cop21 di Parigi: «La cli-fi ci può aiutare a rendere vivibile il nostro pianeta?». Un interrogativo che in qualche modo riecheggia quanto aveva scritto vent’anni fa, nel 1995, sulle pagine della rivista Grist l’ambientalista Bill McKibben: «Ciò di cui il riscaldamento globale ha bisogno è arte».

In questo senso, osserva oggi Bloom, la cli-fi, più che un genere narrativo, nasce come stimolo ai nuovi scrittori, affinché si impegnino su questo terreno. E infatti attualmente esistono corsi di scrittura cli-fi curricolari in molte università americane, australiane e canadesi, in Francia e in Scandinavia ci si sta muovendo nella stessa direzione e già dalle due parti dell’Atlantico si vedono i primi frutti di questo movimento, soprattutto per quanto riguarda la narrativa per l’infanzia: «La cli-fi», ha scritto sul Guardian Sarah Holding, autrice britannica di fortunati libri per bambini, «mi ha consentito di partecipare con l’immaginazione a una riscrittura del nostro futuro».

Se, come sembrano pensare questi autori, la cli-fi sarà in grado di riorientare il mondo e di condizionare le decisioni dei vertici internazionali, è difficile da prevedere. Ma di certo apre al grande pubblico uno spazio di reale comprensione dei rischi globali del crac energetico e rilancia una vecchia questione posta a suo tempo da Immanuel Kant: il nostro mondo ha uno scopo morale? O spetta a noi riempirlo di senso? Non è forse questo uno degli umili e forse ultimi compiti che la letteratura può ancora pretendere per sé?


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA