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Cooperazione & Relazioni internazionali

La schiava del Premio Pulitzer

È una storia da copertina bellissima e terribile, quella raccontata dal giornalista filippino-americano Premio Pulitzer Alex Tizon, riguardo la schiava che la sua famiglia, emigrata negli Stati Uniti, aveva portato con sé dalle Filippine e che ha vissuto con lui fino alla sua morte

di Ottavia Spaggiari

Uscirà postuma sul numero di giugno della rivista americana The Atlantic, My family’s slave il lungo reportage autobiografico scritto da Alex Tizon, vincitore del Premio Pulitzer 1997, morto improvvisamente lo scorso marzo a 57 anni. Un pezzo che ha fatto già molto discutere perché racconta la storia di Lola, la governante dei genitori di Tizon, portata negli Stati Uniti negli anni sessanta, insieme al resto della famiglia, al momento della loro emigrazione dalle Filippine, ma costretta a lavorare senza giorni di riposo e senza uno stipendio, sottoposta a continue umiliazioni.

È una storia, quella di Lola, di ordinaria schiavitù, che Tizon ha aspettato tutta la vita prima di raccontare.

Un retaggio crudele della vecchia quotidianità nel Paese d’origine dove, scrive il giornalista “la schiavitù ha una storia lunga” e “oggi anche i poveri possono avere degli utusans o katulongs (aiutanti) o kasambahays (domestici), finché ci sono persone più povere. Il lago in cui pescare è profondo.”

Lola veniva da una famiglia poverissima e aveva solo 18 anni quando il nonno di Tizon l’aveva convinta ad andare a lavorare nella sua casa, per prendersi cura della sua unica figlia, allora dodicenne, in cambio di vitto e alloggio, non capendo però che quell’accordo l’avrebbe legata per sempre. Lola avrebbe seguito quella ragazza per tutta la vita.

Quando la sua padrona si era sposata, aveva dovuto occuparsi anche del marito e dei suoi figli, era stata costretta a trasferirsi negli Stati Uniti, quando il padre di Tizon aveva trovato un lavoro a Los Angeles, con l’unica promessa, mai mantenuta, di ottenere una retribuzione per il suo lavoro, così da riuscire ad inviare dei soldi a casa, nelle Filippine, dove non le avrebbero mai permesso di ritornare, neppure dopo la morte dei genitori.

“Avevamo passato i primi dieci anni negli Stati Uniti a cercare di andare bene. Avere una schiava non andava bene. Avere una schiava mi fece venire dei gravi dubbi su che tipo di persone eravamo e sul Paese da cui venivamo.” Si legge nell'articolo.

Lo stesso Tizon, che all’epoca dell’arrivo negli Stati Uniti aveva 4 anni, racconta di avere impiegato molto tempo prima di capire l’esatto ruolo di Lola all’interno della sua famiglia. Una dolce tata da lui amatissima, sistematicamente maltrattata dai suoi genitori. Ad aprirgli gli occhi il fratello più grande, quando aveva 11 o 12 anni. “È stato lui ad introdurre la parola schiava nella mia interpretazione di quello che era Lola. Prima che lo dicesse pensavo che lei fosse solo uno sfortunato membro della nostra famiglia. Odiavo quando i miei genitori le urlavano dietro ma non avevo mai capito che loro, e quell’intero accordo, fosse immorale.” Crescendo, il ruolo di Lola era diventato un motivo di forte contrasto tra Tizon e i genitori. Il giornalista, insieme ai fratelli, aveva lavorato per farle avere finalmente la cittadinanza americana e dopo la morte della madre, nel 1999, Tizon prese Lola, all’epoca 75enne a vivere con sé, la moglie e le loro due bambine, le diede una stanza tutta per sé e 200 dollari a settimana, oltre alla libertà di fare, finalmente, tutto ciò che voleva. Fecero insieme un ultimo viaggio nelle Filippine, quando Lola aveva 83 anni e Tizon portò lì le sue ceneri, dopo la sua morte, a 86 anni.

Secondo Jeffrey Goldberg, editor di The Atlantic, la vita di Lola avrebbe segnato tutto il lavoro giornalistico di Tizon. “Ha costruito una carriera ascoltando certi tipi di persone, i dimenticati, quelli ai margini, le persone a cui non era mai stata chiesta la propria storia.”


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