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Cooperazione & Relazioni internazionali

Bimbo di Cernobyl adottami come pap

Francesco è un ragazzo padre “single”. La legge non gli permette di strappare Mike agli orfanotrofi della Bielorussia. Ma assieme formano una coppia perfetta

di Alessandro Sortino

Quando un mese fa arrivò l?ora di tornare a casa, nell?orfanotrofio di Minsk, in Bielorussia, il dodicenne Mike non si mise a piangere. All?aeroporto di Fiumicino strinse la mano all?uomo che dal 20 dicembre lo aveva ospitato, gli diede un bacio e scomparve, senza voltarsi, nel serpentone che porta alla carlinga. C?erano lacrimoni invece negli occhi degli altri ?bambini di Cernobyl? arrivati a Roma con l?associazione Puer della Caritas, presso le famiglie romane. Chiamavano ?mamma, papà?, mentre le maestre li accompagnavano sull?aereo. Non così Mike. Eppure quell?uomo che stava salutando, con gli occhiali da intellettuale, i capelli rossastri, l?aria svagata, era ciò che di più simile a un padre lui avesse mai visto. Si chiama Francesco Bonelli, quell?uomo, ha trent?anni, fa l?attore (?Voltati Eugenio? diretto da Comencini) , lo sceneggiatore (tra l?altro ?Caro maestro? con Columbro), il regista (è stato l?assistente di Scola in ?Capitan Fracassa? e di Coppola nel ?Padrino III?). Ormai da quattro anni, per sei mesi all?anno, ospita Mike a casa sua. La sua storia è così simile a un film da sembrare inventata. Di più. È simile a un film già girato: ?Smoke? diretto e scritto da Paul Auster. C?era William Hurt: lo scrittore, che si trovava in casa un ragazzo senza padre. Senza mai accettare il suo ruolo, diventava un padre vero per il ragazzo. Da lì partiva una rincorsa di storie, in cui ciascun personaggio cercava il proprio padre, o il proprio figlio, e cercandolo ne trovava un altro, che gli insegnava ad accettare se stesso. Come in ?Smoke? anche in questa storia il bambino è mulatto: Mike infatti è figlio di uno studente africano passato per Minsk dodici anni fa, poco prima della tragedia nucleare. Mise in cinta una donna, e poi sparì. La donna beveva troppo. Si chiudeva in casa con la sua bottiglia. Non dava da mangiare al piccolo Mike, non lo faceva uscire. La polizia, chiamata da qualche vicino, trovò Mike più morto che vivo. Lo portarono in ospedale. Ma le medicine per curarlo costavano troppo. Gli tolsero i vestiti e lo chiusero in una stanza. Gli portavano da mangiare e basta. Ogni tanto gettavano un?occhiata dentro, per vedere se la morte era più forte di lui. Ma Mike fregò loro e la morte: si salvò e finì in un orfanotrofio. Bisogna rigare dritti lì, perché basta un?intemperanza e ti mandano nel padiglione psichiatrico, dove uscire è quasi impossibile, perché è troppo facile impazzire davvero. E Mike rigò dritto. Un giorno (era il 1994) lo portarono a Roma, nel corso di un programma di disintossicazione del sistema immunitario dalle radiazioni nucleari, prodotte dalla esplosione del reattore, gestito appunto dall?associazione ?Puer, Caritas?. Scese dall?aereo e scoprì di non essere stato affidato a una famiglia, ma a un ragazzo poco più che ventiseienne. Francesco, appunto. «All?inizio», racconta Francesco, «c?è stato il grande problema della lingua. È difficile accettare il fatto che di fronte a te c?è una persona che non comprende neanche le espressioni più elementari. Ci riunivamo con le altre famiglie, disperati, ognuno col suo vocabolarietto di frasi bielorusse. Ma io ho trovato un metodo mio, più semplice e diretto». Il metodo di comunicazione ?doc? inventato da Francesco è geniale e italianissimo: giocare a briscola. Mike conosceva le carte napoletane, ed è dotato di una spiccata intelligenza matematica. Dopo qualche spiegazione a gesti, i due hanno cominciato la loro partita. Mike probabilmente capiva quanto fosse importante, per lui, quella partita a briscola. Quello che non poteva sapere era quanto fosse importante per l?uomo, poco più che un ragazzo a quel tempo, che aveva di fronte. Come in una sceneggiatura di Auster, anche in questa storia vera gli specchi hanno giocato il loro ruolo. Primo specchio: Francesco è quello che una volta si sarebbe definito un ragazzo padre. Si è lasciato definitivamente con la sua ragazza, qualche mese dopo aver avuto un figlio, che ora ha quattro anni, e del quale Francesco è un attento e affettuosissimo papà. Così la partita consisteva in ciò: Mike giocava a briscola e imparava qualcosa dell?essere figlio, Francesco giocava a briscola e imparava qualcosa dell?essere padre. «All?inizio», racconta Francesco, «Mike si comportava come un piccolo soldato per le incombenze ?logistiche? come rifarsi il letto, o lavarsi il collo. Regole apprese nell?orfanotrofio, suppongo. Ma non aveva nessuna idea, su cosa volesse dire vivere in una famiglia: ad esempio alzarsi da tavola solo dopo aver finito di mangiare. Ho cercato di insegnarglielo. Il problema era che non si fidava». Francesco è vegetariano da quando ha letto un romanzo di Singer sul significato dei macelli animali. Mike mangiava solo carne. Il loro primo grande scontro si è giocato davanti a un piatto di lattuga. Alla fine Mike ha accettato di mangiarla. Altro scontro: i disegni. Mike disegnava solo teschi e bare. Francesco semplicemente gli ha chiesto con decisione di disegnare qualcos?altro. E così Mike ha cominciato con gli alberi e le case. Poi gli ha dato qualche libro da leggere: ?Il gabbiano Jonathan? di Bach, il suo preferito. Imparare a volare, imparare a pensare raggiungibili anche i cieli che sembrano pensati per gli altri. «Ecco», spiega Francesco, «io vorrei semplicemente che Mike ce la facesse». Gli specchi: nel 1980 Francesco aveva dodici anni. Interpretò un ruolo da protagonista in un film di Comencini (?Voltati Eugenio?), che ebbe un grande successo. Era un bambino, conteso da due genitori ex sessantottini. Alla fine decideva di andare per la sua strada, da solo. Gli gridavano, ?voltati?, ma lui non ascoltava più. Ora vorrebbe che anche Mike riuscisse a non voltarsi. «Mi sento suo padre?», dice. «No, forse no. Ho cercato di evitare questa confusione di ruoli, questa recita che ho visto fare da altre famiglie, coi genitori che si fanno chiamare mamma e papà e i ragazzi bielorussi che recitano il ruolo dei figli. E poi quando devono tornare a Minsk si disperano». Eppure Francesco e Mike, a vederli, sembrano padre e figlio. La mattina Francesco lo accompagna a scuola. Le lezioni le tengono maestre bielorusse in alcuni istituti di suore della città, dalle otto alle cinque. A quell?ora Francesco lo va a prendere con la sua moto. Nei giorni nei quali può vedere suo figlio, Mike gioca col bambino. Sono diventati grandi amici. Francesco lavora alle sue sceneggiature e loro giocano sul tappeto del salotto, nella sua bella casa nel quartiere Prati, osservati da un imponente e sonnacchioso cane lupo. La domenica Francesco porta Mike a messa, nella sua parrocchia. Quando arriva l?ora di cena, Francesco cucina: verdure per sé, carne per Mike, pasta e frutta per entrambi. E dopo la tradizionale lotta per l?insalata guardano insieme un po? di tv, oppure leggono un libro. Oppure ancora giocano a briscola o a scacchi. E si prendono in giro, l?uno con l?altro. «Io ho scelto di non andare a Minsk», prosegue Francesco, «altre famiglie lo hanno fatto, e sono tornate sconvolte, delle condizioni in cui vivono i ragazzi. Io non voglio angosciarmi per problemi che non posso risolvere: preferisco godermi la vita, e risolvere i problemi alla mia portata. Ad esempio: cosa farà Mike dopo i diciotto anni? Lì le ragazze finiscono sul marciapiede e i ragazzi diventano alcolizzati. Io non voglio, lo ripeto: voglio che Mike ce la faccia» Francesco è uno dei pochi che ha deciso di adottare il suo ospite. O comunque di trovare il modo di fargli fare il liceo in Italia, e poi di mandarlo all?università. «Stiamo studiando una soluzione», racconta, «la legge mi impedisce di adottarlo perché non sono sposato. Mia madre mi aiuta, prestando il suo nome, quando si tratta di affido temporaneo. Ma nel caso di adozione l?escamotage è impossibile. Comunque una soluzione la troveremo: io voglio aiutarlo». Ad andare per la sua strada. Senza voltarsi. Un ?Dono? per i bambini Si chiama ?Dar?, il Dono, come il bellissimo romanzo di Nabokov. È il nome del progetto per l?adozione a distanza che l?Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze) ha organizzato a favore dei tanti minori disagiati in Bielorussia. In particolare nella regione di Gomel, distante da Cernobyl solo un centinaio di chilometri, la situazione di oltre 5 mila bambini appare drammatica: ospiti in 27 istituti dall?aspetto di internati, molti di loro sono orfani e alcuni affetti dalla cosiddetta ?Sindrome di Cernobyl?; affidati all?assistenza sociale bielorussa che, per mancanza di conoscenze e per la drammatica situazione economica, non può assicurare loro la possibilità di una serena reintroduzione sociale. Il Progetto ?Dar-Dono?, dunque, non si vuole proporre come una ?semplice? adozione a distanza, ma in modo più strutturale come una cooperazione con le autorità locali per cercare di risolvere in via definitiva il problema dei minori emarginati del Paese. Tramite la formazione di appositi esperti e la costruzione, nel corso dei quattro anni del Progetto, di un Centro psico-sociale per il definitivo reingresso familiare dei bambini. Chi desiderasse sottoscrivere l?affido a distanza per finanziare il progetto ?Dar-Dono?, l?importo annuale (di lire 400 mila) può essere versato sul c/c bancario n. 102800, presso la Cassa di risparmio di Firenze, abi 6160, cab 2800, filiale di Firenze, via Bufalini 4. Per ulteriori informazioni, segreteria organizzativa Anpas: tel./fax 051/841414.


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