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Welfare & Lavoro

Braccia nere torneranno

A gennaio la rivolta dei 1500 immigrati. Che ora stanno per arrivare di nuovo

di Chiara Caprio

Il cuore della Calabria è un arancio. Così diceva Franco Costabile, cantore delle terre d’Aspromonte. Era il “succo d’aurora”, quando sorge il sole sulle terre della Piana. Nei mesi estivi questo scalda fin dalle prime ore i filari di uliveti e aranceti, che si alternano nel dolce paesaggio di una delle tre pianure calabresi, seconda per estensione solo a quella della Sila. Oggi il reticolo di strade che si incastrano come un labirinto tra alberi e campi è scandito dalle arance che giacciono come corpi morti sul terreno. Ancora non è stagione di raccolto. Ma qualcosa si muove tra le fronde. Sono le braccia dei contadini, e le mani degli stranieri rimasti, i pochi che continuano a zappare il terreno e a vivere qui, in questa area di 33 comuni e 180mila abitanti ufficiali. Ufficiali, perché nessuno ha contato uno per uno i braccianti che hanno rimpiazzato gli antichi “coloni”, quelli che oggi sono “le braccia, le unghie d’Europa”.

Una tenda per curare le ferite

«Se in Nigeria, prima di farmi partire, mi avessero detto, attento, sai che in Italia ci sono rivolte e scontri? Io non ci avrei creduto». Godwin, un giovane uomo nigeriano di 35 anni, ha lo sguardo incredulo, agita le mani. Vuole che si capisca «che non penso che tutti gli italiani siano razzisti, però alcuni sì». A volte si ferma e raccoglie i pensieri. Guarda il cielo sopra i campi della Piana di Gioia, campi dove lui e altri due ragazzi africani colpiti durante gli scontri continuano a lavorare «dalle sette e mezza del mattino alle quattro del pomeriggio». Ora raccolgono melanzane, peperoncini e olive nei terreni confiscati alla mafia e gestiti dalla cooperativa Valle del Marro. Terreni come quelli dove lavoravano prima «ma prima era uno schifo, questo invece è un buon lavoro», spiega Musa del Burkina Faso, 35 anni, in Italia dal 2008. Sorride e vuole raccontare un po’ dell’assurdità che ha vissuto. Si fermano Musa e Godwin, colpiti dal sole torrido che trafigge tutta la Piana e accarezzati da un vento caldo che solleva un poco di polvere e fa volare le coccinelle che infestano le melanzane. «Mi hanno preso a bastonate». Musa alza la maglietta e mostra le cicatrici. C’è una croce sulla pancia. Un segno che rimarrà per sempre. «Sono sceso dal treno arrivato da Milano, e mi hanno assalito. Ero venuto a trovare mio fratello, che lavorava nei campi». China il capo, ma solo per continuare a lavorare.
Il “terzo uomo” invece, Camara Yacouba, non smette mai. Continua a strappare le erbacce, e solo dopo qualche minuto alza la testa. Il suo corpo snello svetta in mezzo al campo, lo sguardo fiero. «Io non mi fido dei giornalisti. Siete venuti al mio letto mentre ero in ospedale, ma mi avete forse aiutato?». È un ragazzo guineano di 26 anni. Gli hanno sparato. La notte che la rabbia e la frustrazione dei lavoratori neri di Rosarno hanno preso forma in una guerriglia di strada, lui stava tornando a casa con un altro ragazzo africano. Un gruppo di ragazzi rosarnesi è passato e ha aperto il fuoco. A gennaio, il sogno di un lavoro e di soldi da mandare a casa che si scioglie come un miraggio suscitato dalla calura cocente. Oggi invece il futuro è fatto di un contratto per tre mesi (da rinnovare), di 940 euro netti in busta paga, di una casa, a Polistena, e di una scuola, per imparare l’italiano. Godwin è contento, «posso parlare inglese, qui non succede spesso. Non sempre riesci a dire quello che pensi con esattezza», sorride. Racconta la sua vita passata, come membro del Massob, il Movimento per la liberazione dello Stato del Biafra, terra di Igbo nel Sud-Est della Nigeria. È per motivi politici che ha lasciato la sua famiglia. Per scappare. A volte però il passato fa capolino. Marina, giovane socia della cooperativa, scuote il capo lievemente e fissa il pino che affianca il cancello d’ingresso ai terreni: «Spesso Godwin si isola, a pranzo ha bisogno di stare solo. Preferisce sdraiarsi all’ombra degli alberi e canta, canta tutto il giorno, in inglese e igbo».
Molti sono andati via, “deportati” o salvati, ma loro sono rimasti per lavorare onestamente. È stato l’incontro a riportare alla vita questi tre ragazzi africani. Il primo ha il volto di don Pino de Masi, parroco della chiesa di Santa Marina Vergine di Polistena e referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro. Don Pino è andato a prenderli in ospedale. Il secondo incontro invece ha il volto dei volontari della zona, che li hanno accuditi durante la degenza. «Dovevamo solo scegliere: abbandonarli al loro destino o continuare? Abbiamo deciso di continuare», spiega don De Masi. I parrocchiani hanno affittato un’abitazione per quattro dei ragazzi ricoverati. Tre di loro sono stati assunti dalla cooperativa tramite le borse di lavoro. Il quarto ancora non è in grado di lavorare. Gli hanno distrutto le mani e dovrà aspettare. Per i prossimi sei mesi vivranno qui, «ma l’intento del progetto è quello di renderli autonomi, aiutarli a prendersi cura di loro stessi e ridare loro la parola». Torna sempre il concetto di “parola”, a segnare una distanza con il silenzio che per anni ha avvolto quello che accadeva a Rosarno e nel resto della Piana.

Il campo di battaglia
Dopo gli spari, c’è sempre il silenzio. Dopo il silenzio, viene la battaglia. Dopo la battaglia, c’è stata la cacciata. I braccianti africani hanno lasciato Rosarno per scappare dagli spari, per andare lontano e salvarsi da una battaglia che, forse, non avrebbero potuto vincere. Hanno abbandonato la Rognetta, ex fabbrica privata ora di proprietà del Comune di Rosarno, e l’ex Opera Sila, ex oleificio della Piana lasciato in disuso e di proprietà del ministero dell’Agricoltura e della Regione Calabria. La strada che porta qui, alle porte di Gioia Tauro, ha ancora i segni di quello che è stato. Carcasse di macchine bruciate e… PER CONTINUARE A LEGGERE IL REPORTAGE ACQUISTA VITA IN EDICOLA


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