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Caso Eternit, condanna confermata

La corte d'Appello di Torino aumenta di due anni la pena al miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, ex manager dell'azienda. Ecco come la comunità di Casale è riuscita ad avere giustizia

di Antonio Sgobba

La Corte d'Appello di Torino ha condannato il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, ex manager dell'Eternit, a 18 anni di carcere  per disastro ambientale doloso e omissione dolosa di cautela antinfortunistica, aumentando così di due anni la pena inflitta in primo grado. È stato invece dichiarato estinto il reato per il barone belga Louis De Cartier De Marchenne, deceduto due settimane fa all'età di 92 anni. La Corte d'appello di Torino ha disposto provvisonali per 20 milioni di euro alla Regione Piemonte e di oltre 30,9 milioni per il comune di Casale Monferrato.

Riproponiamo per l'occasione l'inchiesta pubblicata su Vita a settembre, ai tempi della condanna in primo grado,  a firma di Antonio Sgobba.

«È arrivata questa lettera dall’avvocato, cosa dobbiamo fare?». Nel giro di una mattinata è l’ennesima volta che Bruno Pesce si sente fare la stessa domanda. Risponde a tutti nello stesso modo, con la stessa calma. Guarda la lettera, mette una mano sulla spalla: «Tranquillo, è solo una formalità. Dice che se si vuole rinunciare all’appello bisogna comunicarlo entro cinque giorni. Ma noi non vogliamo rinunciare, vero?». Chi ha chiesto va via rassicurato. Qui a Casale Monferrato tutti conoscono Bruno, sindacalista, coordinatore della Vertenza amianto. Se non c’è lui comunque basta andare in piazza Castello, alla sede dell’associazione famigliari delle vittime (Afeva). Tre stanze nei locali della Camera del Lavoro, un punto di riferimento per tutti. Si parla ancora del processo Eternit per cui sono stati condannati a 16 anni Stephan Schmideiny e il 92enne barone Louis de Cartier de Marchienne. Qui meglio noti come “lo svizzero” e “il belga”, oppure “il vecchio”. Condannati con una storica sentenza nel febbraio scorso, e ora convinti di “sistemare” le cose nel processo di appello. L’associazione e i milleottocento casalesi che si sono costituiti parte civile non si spaventano: «Vedrai che avranno una condanna anche più pesante», dice Pesce. I giornali riferiscono che non hanno nessuna intenzione di pagare i risarcimenti. Lui non si scompone: «E cosa ti aspettavi, da quella gente lì?».

«Non devo farci niente, vero, con questa lettera? La posso strappare?». Romana Blasotti Pavesi, 83 anni, è un’istituzione di Casale Monferrato. Ha testimoniato al processo, ricordando come ha perso a causa dell’amianto prima il marito, nel 1983, poi la sorella, nel 1989, e la figlia appena cinquantenne nel 2004. È la presidente dell’associazione. Da Fazio e Saviano leggeva la sua definizione di “polvere”. «Son stata contenta soprattutto perché poi chi mi ha visto in tv mi ha detto “ma come ti stavano bene i capelli”. Alla mia età fa piacere ricevere qualche complimento», scherza con Bruno e gli altri, e saluta: «Devo andare a preparare il pranzo». «Fa anche un ottimo strudel, dicono, io non lo so, non l’ho mai provato», dice Bruno. «Ma va che l’ho invitato, è lui che non viene mai».

Il viavai è continuo, nella sede dell’associazione: donne, uomini, anziani, giovani. Qui l’amianto riguarda tutti. Arriva Paolo, 23 anni, studia giurisprudenza in Cattolica a Milano. Un cognome noto: Liedholm. È il nipote di Niels, giocatore del Milan, allenatore della Roma. Che ci fa qui? «Mia madre è morta di mesotelioma, nel 2008, aveva 49 anni. Era una sportiva, da ragazza giocava a pallavolo. Si allenava in una pista d’atletica al Ronzone, il quartiere dell’Eternit». Oggi Paolo si impegna nell’associazione: «Mi è utile studiare diritto, ho letto tutte le motivazioni della sentenza». Sono le 713 pagine in cui il tribunale di Torino spiega perché giudica colpevoli di disastro ambientale doloso e omissione di cautele antinfortunistiche i due magnati proprietari della Eternit. Oltre alla condanna a 16 anni, c’è l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e incapacità di trattare con la Pubblica amministrazione per tre anni e il risarcimento delle parti civili. «Una sentenza che senza enfasi si può definire davvero storica, sia per gli aspetti sociali che per gli aspetti strettamente tecnico-giuridici», aveva detto il ministro Balduzzi. Non esagerava: la decisione del tribunale ha creato un precedente importante per tutte le altre vertenze sull’amianto nel mondo: quelle aperte in Svizzera, Francia e Brasile; o che si potrebbero aprire nei paesi dove la fibra killer ancora viene utilizzata: Russia, Canada, Cina, India, Brasile. Bruno Pesce lo riconosce: «A volte non mi sembra vero e lo dico agli altri: “Ma ci rendiamo conto di quel che abbiamo fatto? Dove siamo arrivati?”»

Ma come hanno fatto a Casale Monferrato ad arrivare a questo risultato? Perché la storia è stata scritta qui e non altrove? In Italia L’Eternit c’era anche in Campania, a Bagnoli, e in Emilia, a Rubiera. L’amianto lo trattavano anche la Fibronit a Bari e in provincia di Pavia, a Broni, e la Sacelit a Messina. Anche lì uccide da decenni. Eppure il caso di Casale è unico ed è diventato nel tempo un esempio per tutti gli altri. «Qui si è creato un laboratorio sociale e politico. Parte come mobilitazione dal basso e si organizza negli anni come pratica di resistenza. Ha retto grazie a un forte tessuto sociale, grazie a una comunità che è stata sempre compatta e che ha saputo rinsaldarsi anche dopo le spaccature», risponde Rosalba Altopiedi, sociologa dell’università di Torino, autrice di uno studio sul tema (Un caso di criminalità d’impresa: l’Eternit di Casale Monferrato, L’Harmattan Italia, 2011).

Per capire cosa intende bisogna tornare al 1974. Quando un operaio 24enne, Nicola Pondrano, viene assunto all’Eternit. «Allora era un posto ambito, come lavorare in banca. I dipendenti avevano la paga più alta e le colonie estive per i bambini», racconta Pondrano, segretario dell’associazione. «Da subito però mi sono accorto che c’era qualcosa che non andava. C’erano sempre i due piloni all’ingresso ricoperti di manifesti da morto, gli operai deceduti avevano tutti intorno ai 5o anni, non avevano fatto neanche in tempo ad andare in pensione». Pondrano incomincia a protestare, la proprietà reagisce affidandogli mansioni sempre più degradanti. «Nel 1976 ho la fortuna di incontrare un prete operaio, padre Bernardino Zanello. Lui lavorava nei sotterranei, dipingeva i tubi dell’acqua. Un compito destinato a chi dava fastidio in fabbrica. Così però aveva la possibilità di girarla tutta e grazie a lui riusciamo a ricostruire una prima mappa grezza dello stabilimento». Poco dopo il sacerdote viene mandato in missione in Cile, dove si trova ancora oggi. Lascia però una documentazione che sarà utile. In fabbrica arriva come delegato Cgil Bruno Pesce e iniziano il percorso che li porterà a fondare l’Afeva, nel 1988.

Se fossero stati da soli la storia si sarebbe fermata qui. Al massimo sarebbe andata avanti come una rivendicazione di operai e sindacati. Invece no. Un pezzo dopo l’altro questa storia coinvolge tutta la città.  «Sapevamo che c’era della gente che non sarebbe mai venuta da noi, per le nostre posizioni politiche. Dovevamo fare qualcosa che coinvolgesse tutti. All’inizio non c’era neanche la consapevolezza che lì dentro si moriva», dice Pondrano. Così incominciano a rivolgersi a tutta la città per informare sulle conseguenze dell’Eternit. Il primo convegno in cui si parla pubblicamente dei danni dell’amianto è del 1984. «Dicevo “Non ammazzate solo voi stessi, ammazzate i vostri famigliari. Stanno ammazzando un’intera comunità”. Così vedevi le persone reagire, si trasformavano, si responsabilizzavano», ricorda Pondrano.

«Alla componente sindacale si aggiunge poi la comunità scientifica e medica. In particolare il lavoro di alcuni medici locali, fondamentale perché i cittadini si riconoscessero come vittime dell’amianto», ricorda la sociologa Altopiedi. Medici come Daniela De Giovanni, 60 anni, oncologo oggi responsabile dell’unità cure palliative dell’Ospedale di Casale Monferrato. Incomincia a occuparsi delle vittime dell’amianto subito dopo la laurea in medicina. Era il 1978, un delegato della Cgil, Giorgio, le chiede se vuol dare una mano. «Giorgio è morto due anni fa, di mesotelioma», racconta la dottoressa. «Adesso si sta portando via la generazione dei 50-60enni la mia generazione. I bambini degli anni Sessanta, quando la fabbrica funzionava a pieno regime e la polvere era dappertutto, per le strade e i cortili in cui giocavamo. Chi muore oggi, ha respirato allora le fibre».

Negli anni Ottanta, grazie alla collaborazione con l’Istituto di Epidemiologia dell’Università di Torino, Daniela raccoglie e diffonde i primi dati sugli effetti devastanti della fibra. «All’inizio si credeva che portasse solo l’asbestosi, la patologia che gradualmente si portava via i polmoni dei lavoratori. Grazie ai nostri studi invece mostrammo come a Casale c’era un’incidenza di tumori al polmone di sedici volte superiore alla norma. A quel punto l’azione di sensibilizzazione divenne più efficace, tutti si resero conto che il problema riguardava l’intera comunità». Da allora il mesotelioma pleurico, diventa per tutti il male dell’amianto.

Il lavoro di Daniela continua e nel 1996 fonda Vitas, associazione che si occupa di prestare assistenza domiciliare ai malati terminali. Ha seguito circa 2.500 pazienti, ormai la media è di duecento all’anno, tra questi ci sono anche i malati di mesotelioma. «Abbiamo sviluppato una grande competenza nella terapia del dolore», sottolinea. Oggi per Vitas lavorano 35 volontari non sanitari e un’equipe medica composta da tre medici, quattro infermiere, una psicologa. «Tutte donne, non credo sia un caso», dice Daniela. Dal 2009 hanno avviato anche un hospice.

A Casale, per un periodo, società civile e politica si sono mosse in armonia. I democristiani del Comune e i comunisti del Sindacato mettevano da parte le divergenze e lavoravano insieme. Riccardo Coppo è stato sindaco della città dal 1984 al 1999. Nel 1987, un anno dopo la chiusura della fabbrica, firmò la storica ordinanza in cui si vietava l’utilizzo dell’amianto. Fu il primo caso in Italia. «Come si poteva nascondere un dramma come questo? Si moriva da soli e in silenzio, era necessario prendere coscienza». Era una strage lenta e silenziosa. Il mesotelioma ha un periodo di incubazione che può andare dai 20 ai 55 anni. Può essere difficile stabilire un nesso di causa-effetto a distanza si così tanti anni. «Non lo si immaginava nemmeno, negli anni Sessanta, quando l’Eternit a Casale era come la Fiat a Torino e dava lavoro a duemila persone», ricorda l’ex sindaco. Eppure dopo la chiusura degli stabilimenti nel 1986 la comunità resiste anche all’offerta di riapertura della fabbrica: «Ormai tutti erano consapevoli dei danni. Il ricatto occupazionale non poteva reggere», ricorda Coppo. Incomincia cosi a mettersi alle spalle una storia iniziata nel 1906, all’apertura dello stabilimento, e che andrà avanti fino al 2006, quando verrà definitivamente conclusa la bonifica dell’area.

Il patto sociale che a lungo aveva unito cittadini e politica era stato messo a dura prova qualche mese fa. Quando all’inizio dell’anno il sindaco Giorgio Demezzi stava per accettare la proposta da molti considerata indecente: 18,3 milioni di euro offerti dal magnate svizzero Schmideyni affinché il Comune si ritirasse dal processo in cui si era costituito come parte civile. Il sindaco aveva accettato. Dal punto di vista economico l’accordo sembrava vantaggioso. A quel punto accade qualcosa che mostra tutta l’eccezionalità di Casale: la cittadinanza reagisce con una protesta mai vista prima. «Tutti hanno percepito quell’offerta come offensiva, si negava la possibilità di fare giustizia, di riconoscere le colpe», spiega Pesce. La vicenda arriva alle televisioni nazionali: durante l’Infedele di Gad Lerner più di qualsiasi parola valeva lo sguardo severo di Romana Blasotti Pavesi che inchiodava il sindaco. Interviene anche il ministro della Salute, per dissuadere l’amministrazione.

Poco dopo il Comune torna sui suoi passi. «In quel momento accade qualcosa di nuovo: una battaglia che sembrava essere stata portata avanti solo da un gruppo tenace, si mostra come battaglia di tutti. Alla protesta si unisce chi fino ad allora non ne aveva fatto parte: i giovani, le nuove generazioni nate dopo la chiusura dello stabilimento», ricorda Pesce. «È stata la risposta più bella. Quell’entusiasmo veniva da una consapevolezza che aveva pervaso tutte le famiglie», dice Nicola Pondrano. «Grazie all’azione di sindacato, medici, associazione delle vittime, politica si era arrivati alla costruzione sociale del ruolo di vittima, la consapevolezza che si era trattato di un vero e proprio crimine. Un passaggio fondamentale: perché se non ci sono vittime, non ci sono neanche colpevoli», commenta la Altopiedi.

Le cartelline occupano tre pareti di una stanza al piano terra della sede dell’associazione. «Quelle bianche sono dei lavoratori deceduti, le rosa i cittadini e le gialle quelli fuori da Casale», spiega Bruno Pesce. In fondo, nell’ultimo ripiano ci sono anche due o tre fascicoli verdi. E quelli, per cosa stanno? «Sono quelli ancora in vita». La strage continua. Negli ultimi anni la media è di cinquanta morti di mesotelioma all’anno. Nei primi mesi del 2012 siamo sopra la media: i morti sono 35 solo da gennaio a maggio. L’ultima vittima è padre Italo Varvello, 82 anni, morto sabato 19 maggio a Neuquen, nella Patagonia argentina. Negli anni Cinquanta era stato per sei anni vice parroco nel quartiere della fabbrica.

Eppure ogni tanto viene ancora fuori qualche polemica: l’ultima partita da un giornalino dei ragazzi che frequentano le scuole del Sacro Cuore, un istituto gestito da religiose. Gli studenti del liceo avevano festeggiato la sentenza del tribunale di Torino. Qualche consigliere comunale se l’è presa: dava una cattiva immagine della città. «Si vede che per questi qui son delle pericolose sovversive anche le suore», ci ride su Pesce.

La storia di Casale Monferrato sembra un film. E lo è anche diventato. Si chiama Polvere: il grande processo all’amianto. Lo hanno girato Niccolò Bruna e Andrea Prandstraller. Per cinque anni dal 2006 al 2011 hanno seguito le vite dei casalesi: «La loro forza è nel modo in cui stanno insieme», sottolinea Bruna.
Il film segue anche la storia personale di Luisa Minazzi. Insegnante, dirigente scolastica, attivista di Legambiente e assessore all’Ecologia. Sempre impegnata contro l’amianto. Morta di mesotelioma pleurico a 57 anni nel 2010. «Un giorno, a casa mia, arrivarono con un camion e scaricarono una montagna di polverino chiaro, per fare il fondo del cortile. Eravamo bambini, io e i miei fratelli, in quella montagna giocavamo come fosse sabbia», raccontava. Il 26 maggio di quest’anno le è stato dedicato un asilo, proprio nel quartiere della fabbrica, il Ronzone, ormai bonificato. Le aule costruite dove una volta si frantumavano gli scarti della lavorazione dell’eternit. Il sindaco ha rassicurato: «Lì non c’è più traccia di amianto».
 


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