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Clandestino sarai tu

Si chiama “Sola andata”. È uno spazio interattivo dove il visitatore si cala nelle vesti di un immigrato e vive in prima persona la miseria e il razzismo.

di Alessandro Sortino

Juvenal è un profugo ruandese di 19 anni arrivato in Italia chissà come. Sarà anche capitato di vederlo, di sfuggita, dalle parti di qualche stazione. Ma per conoscerlo davvero bisogna andare a Cinecittà, a Roma, a ?Sola andata?, uno spazio interattivo su rifugiati e immigrati organizzato da Cies e Acnur con la collaborazione di Arci, Caritas e Acli. Si è aperto la scorsa settimana e rimarrà aperto fino al 31 marzo. Lì non c?è Juvenal, ma ci sono i suoi occhi e ve li concedono in prestito per due ore, facendovi vivere la sua vita e il cammino attraverso il quale è arrivato nel nostro Paese. Prima di entrare nello spazio della ?mostra?, il visitatore deve scegliere un personaggio da interpretare: ci sono Fhatos, un ragazzo albanese che viene in Italia a cercare lavoro, Corazon, una donna filippina, e tanti altri, tra cui Juvenal, il ruandese, che ha il padre Hutu e la madre Tutsi, entrambi uccisi nei massacri etnici. Basta documentarsi tramite un computer e si assorbe in fretta la nuova personalità, al punto che si ottiene perfino un nuovo documento d?identità: ?Juvenal?, c?è scritto. Età: 19 anni. Paese di origine: Rwanda. La sua storia comincia lì. Nei suo panni il visitatore vaga per un paese in guerra. Un soldato lo blocca e gli domanda i documenti. Gli urla nell?orecchio. «Che fai in giro a quest?ora, non sai che c?è il coprifuoco?». Lo sbatte in una baracca, e lo chiude lì dentro. Qualche visitatore cede lì, subito, al primo sconvolgimento della comoda vita di tutti i giorni cui è abituato, e i panni dell?immigrato vuole toglierseli subito di dosso. Chi prosegue, invece, finisce in un campo profughi in Tanzania. «Non si può uscire perché il terreno è minato», spiega un indaffarato cooperante al banco accettazione. In compenso si può provare cosa significhi vivere in tenda: un odore di plastica che rimane impresso. Ma nei campi veri non deve essere l?unica esperienzasgradevole. Il campo profughi non può accogliere per sempre Juvenal. Tornare in Rwanda non conviene, però, meglio andare all?estero e farsi riconoscere lo status di rifugiato politico. Il visitatore si ritrova così all?aeroporto di Fiumicino, a Roma. E qui comprende, ancora più che in una patria devastata dalla guerra, cosa significhi essere un uomo senza diritti, di fronte a un altro uomo che detiene un qualsiasi potere. Arriva in un ufficio. È lì che decideranno se accettarlo, se lasciarlo entrare o meno. La conversazione è continuamente interrotta dal telefono che squilla. Juvenal prova a capire, a domandare qualcosa. «Sono io che faccio domande», risponde l?impiegata. E gli chiede: «Ma se il tuo aereo ha fatto scalo in Kenia, perché non hai chiesto asilo politico lì? Non sai che bisogna chiedere asilo nel primo Paese neutrale in cui si approda?». No, Juvenal, come quasi tutti gli immigrati sbarcati, non lo sa. Allora lo spediscono in questura per altre domande. Hai avuto la casa distrutta? Sei stato perseguitato? Fuori le prove. Ma il visitatore-immigrato non può produrre prove e ottiene solo un permesso provvisorio. Per fortuna un?associazione di volontariato lo aiuta a presentare al Tar un ricorso per ottenere lo status di rifugiato. Ma il permesso scade prima che il Tar si pronunci e Juvenal scivola nella clandestinità. La sua casa italiana è una baracca di alluminio e giornali. Si dorme su materassi per terra, e la mattina si esce per trovare lavoro. La polizia lo ferma ancora: nuove domande a cui non può rispondere… A questo punto della mostra-percorso una ragazzina di una scuola media scoppia a piangere: interpreta il ruolo di una nigeriana. Deve trovare un lavoro. Perché ha capito che senza lavoro non c?è il permesso. Ma senza permesso non c?è lavoro. ? L?opinione di Gillo Pontecorvo Mettetevi nei loro panni Come presidente dell?Ente cinema sono fiero di aver ospitato questa mostra a Cinecittà. Si tratta di una grande occasione di civiltà, in particolare per i giovani e per le scuole. C?è una grande invenzione alla base di questa iniziativa: dare accesso alle persone, a una conoscenza degli altri che solitamente è preclusa. Tutti conosciamo la situazione degli immigrati, ma la conoscenza che abbiamo è giocoforza superficiale, non nasce da un?esperienza diretta. Riesce difficile mettersi davvero ?nei loro panni?. Questa mostra lo consente. Mi auguro che vengano a Cinecittà il maggior numero possibile di classi. Ho assistito ai percorsi dei visitatori e mi è parso che l?idea funzioni a meraviglia. Voglio tornarci più in là e seguire il percorso io stesso, nei panni di qualche immigrato o rifugiato. Anzi: ci tornerò coi miei figli, consiglierò a ciascuno di loro di scegliere un personaggio diverso, in modo di confrontare poi le esperienze. presidente Ente cinema


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