Famiglia

Cosa serve per rilanciare l’affido?

Associazioni di famiglie, servizi, università, istituzioni: tutti i soggetti dell'affido riuniti per cercare la via del rilancio. Tra criticità, sospetti e consapevolezza della bellezza di questo strumento. «Il governo pronto all'ascolto», dice Assunta Morresi, vice capo di gabinetto della ministra Roccella

di Sara De Carli

Rilanciare l’affido. Che serva, è chiaro; come riuscirci, meno. Ma forse anche questo non è poi così vero: a mettersi in ascolto di chi l’affido lo vive tutti i giorni, ciascuno dalla propria prospettiva, le idee sono tante.

Primo, tornare ad avere fiducia. Fiducia nello strumento dell’affido, fiducia da parte di un soggetto nei confronti dell’altro. «L’affido è un atto di fiducia comunitaria in cui ciascun attore della complessa scena che è l’affido si fida dell’altro perché sa che opererà per il bene, che è la possibilità per i bambini di recuperare il diritto ad essere figli», afferma Raffaella Iafrate, prorettrice della Cattolica, ordinaria di Psicologia Sociale.

Secondo, uscire da una logica di competizione tra famiglie d’origine e famiglie affidatarie, per arrivare ad una logica di condivisione. «Nell’affido ognuno deve fare la sua parte, ma non basta che la faccia “per conto suo”: occorre la compartecipazione di tutti al progetto di affido», ha sottolineato Eugenia Scabini, professoressa emerita di Psicologia Sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente del Comitato Scientifico del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia. 

L’intervento della vice capo di gabinetto Assunta Morresi (foto Marta Carenzi, Università Cattolica del Sacro Cuore)

Terzo, avvicinarci con più coraggio alle forme di affido leggere e peculiari come l’affido a tempo parziale, l’affido culturale, l’affiancamento familiare, che potrebbero intercettare meglio le disponibilità delle famiglie. Ma anche favorire l’incontro con i minori, perché molti “sì” nascono non da una disponibilità astratta, ma dall’incontro con un bambino in carne ed ossa e il suo bisogno. «I dati ci dicono che l’affido è “contagioso”, che tra chi conosce da vicino esperienze di affido nasce una maggiore disponibilità: far sperimentare forme di accoglienza brevi e leggere fa sperimentare di “essere all’altezza”», ha ricordato Giulia Lopez, ricercatrice del Dipartimento di Psicologia della Cattolica.

Quattro, ragionare nell’ottica della “migliore riunificazione possibile” anche quando non è possibile il rientro nella famiglia di origine. Che è la sfida più grande iscritta in quella del lavorare insieme, dello scrivere il progetto di affido in modalità condivisa, del promuovere la partecipazione delle famiglie, del dare voce ai bambini: tutte necessità evidenziate Michela Bondardo, del Coordinamento nazionale servizi affidi (e che sorpresa scoprire che la regione che oggi presenta il profilo più innovativo sull’affido è l’Abruzzo).

Un contesto culturale disorientato e ostile

Puntuali e concrete le sottolineature e le richieste delle associazioni. Sono loro a portare al tavolo il dato di realtà di un «contesto culturale disorientato, ostile», per usare le parole di Maria Grazia Figini, dell’Associazione Cometa.

Figini chiede un «maggiore riconoscimento istituzionale della famiglia affidataria, il cui ruolo oggi non è abbastanza compreso. Le famiglie affidatarie devono essere interlocutori attivi delle istituzioni, in quanto portatori dei bisogni dei minori senza interessi personali». L’affido, spiega «spesso oggi è visto dai servizi e dalle istituzioni come erogazione di una prestazione, impoverendolo. Così si perde la sua dimensione di apertura all’accoglienza»: come valorizzare concretamente allora le reti di famiglie affidatarie che sostengono le famiglie e nella quale le famiglie affidatarie si identificano? Perché le reti ancora non sono riconosciute come soggetto della coprogrammazione? Un altro punto è «l’evidente perdita della funzione preventiva dell’affido, dimostrata dal fatto che il ricorso al comma 403 è frequentissimo. Un’accoglienza preventiva, invece, non è più funzionale a sostenere i percorsi con la famiglia di origine? Come coniugare emergenza e prevenzione?».

L’affido spesso oggi è visto dai servizi e dalle istituzioni come erogazione di una prestazione. Così però si perde la sua dimensione di apertura all’accoglienza

Maria Grazia Figini, Cometa

Luca Sommacal, presidente di Famiglie per l’accoglienza, ha chiesto che «in risposta alle tante campagne diffamatorie sull’affido, le istituzioni promuovano una sistematica e decisa promozione dell’affido a tutti i livelli: ministeriale, regionale, comunale. Anche tramite una campagna di comunicazione dedicata». Un secondo punto è la necessità di un maggiore sostegno per i ragazzi al raggiungimento della maggiore età.

Ripartire dalle istituzioni

Frida Tonizzo, presidente di Anfaa, sottolinea come nell’impegno di promuovere l’affido e la realizzazione di tutti gli atti che assicurino al minore il diritto a una famiglia, «il lavoro più oneroso sia quello nei confronti delle istituzioni. Come il Tavolo Affido ha ricordato l’anno scorso, in occasione dei 40 anni della legge 184/1983, l’affidamento può riuscire solo se ognuno fa la propria parte, per questo richiamiamo anche le istituzioni a fare il proprio». Un esempio? «È necessario che le nuove linee di indirizzo nazionali sull’accoglienza dei minori nei servizi residenziale e sull’affidamento familiare, approvate a febbraio dalla Conferenza Unificata, siano fatte proprie da tutte le Regioni».

Le nuove linee di indirizzo valorizzano molto l’ascolto del minore, la centralità del progetto individuale (esplicitando che esso può proseguire fino ai 25 anni di età), affrontano un tema relativamente nuovo come l’affido degli orfani di femminicidio e di violenza domestica, garantiscono un maggior riconoscimento del ruolo delle associazioni e delle reti, sostengono l’affidamento familiare per i minorenni migranti soli. «Non possiamo permettere che le linee di indirizzo restino un libro dei sogni: ne va dell’esigibilità dei diritti dei bambini e delle bambine in modo uguale in tutto il Paese», sottolinea.


Il caso Torino: una Bibbiano bis?

Anfaa, fondata da Francesco Santanera nel dicembre 1962, l’affido ha contribuito a farlo nascere, ha ricordato Tonizzo: i primi affidi la Provincia di Torino li ha fatti nel 1971 e il Comune nel 1976. «Fa male quindi oggi leggere articoli che parlano di “affidi facili” proprio a Torino, senza contestualizzare la notizia e senza sentire le istituzioni coinvolte né le associazioni di famiglie adottive e affidatarie. Non intendo entrare nel merito del procedimento specifico perché sta alla magistratura accertare i reati ma non posso non pensare alle preoccupanti ricadute, ancora una volta pesantissime, di articoli come questo su tutti gli affidamenti familiari. Non è ammissibile fare di tutta un’erba un fascio, criminalizzando gli affidatari che sono dei volontari che si mettono a disposizione delle istituzioni, accogliendo bambini nei confronti dei quali spessissimo sono già intervenuti anche dei giudici: ricordiamo infatti che oltre l’80% degli affidi sono giudiziali. L’affido è a protezione e tutela dei bambini: non dimentichiamoci che le situazioni di maltrattamento nelle famiglie di origine esistono».

La tavola rotonda con le associazioni (foto Marta Carenzi, Università Cattolica del Sacro Cuore)

Dopo Bibbiano, prosegue Tonizzo, «abbiamo dovuto fronteggiare un attacco frontale nei confronti degli allontanamenti e degli affidamenti, si è creato un pregiudizio ideologico nei confronti di queste scelte di accoglienza. Le associazioni di promozione dei diritti dei minori sono le prime a combattere i cosiddetti “affibbiamenti”, cioè gli inserimenti fatti senza tutte le necessarie valutazioni. Siamo noi i primi a chiedere una preparazione e valutazione delle disponibilità, un adeguato sostegno alle famiglie di origine oltre che agli affidatari. Ma non si può tollerare il fatto che nessuno difenda uno strumento tanto necessario, tanto prezioso e che si è dimostrato tanto efficace».

Siamo noi i primi a combattere gli inserimenti fatti senza tutte le necessarie valutazioni. Ma non si può tollerare il fatto che nessuno difenda uno strumento tanto necessario, tanto prezioso e che si è dimostrato tanto efficace

Frida Tonizzo, Anfaa

Una speranza sta nel disegno di legge n. 1125 presentato dalla senatrice Elisa Pirro e sottoscritto da esponenti dei partiti di maggioranza e opposizione, per l’istituzione il 4 maggio di ogni anno della Giornata Nazionale dell’Affidamento Familiare.

«A leggere questi articoli viene un po’ di scoramento», ammette Cristina Riccardi, vice presidente di AiBi e del Forum nazionale delle associazioni familiari. «Il lavoro che l’associazionismo sta facendo è proprio volto a rilanciare l’affido, in termini di mostrare tutto di buono che può portare non solo al bambino, ma alla sua famiglia e all’intero Paese. Stiamo parlando di bambini, dobbiamo fare in modo che crescano nel miglior modo possibile: ne va del nostro futuro. Denigrare una esperienza così gratuita, positiva, generativa come l’affido familiare diventa un autogol», dice Riccardi. Cosa possiamo fare? «Cercare di raccontare tutto ciò che di bello le famiglie e l’associazionismo fanno, in collaborazione con i sevizi e le istituzioni. Fare arrivare alle famiglie che hanno un desiderio di accoglienza una narrazione dell’affido diversa da quella che arriva sulle pagine dei giornali: quelli sono episodi, ma c’è anche un mare di bene, di belle storie. Queste storie sono motivanti, sono attrattive.


Metter mano alla legge?

Dalle istituzioni, aggiunge Riccardi, serve un cambio di passo: «È importante che le istituzioni capiscano i frutti che può portare un istituto come l’affido se ben gestito e ben realizzato. Se non si capisce questa cosa, non ne usciamo. Dobbiamo metterci nell’atteggiamento di chi investe: io investo uno perché so che in futuro mi tornerà indietro due. Invece c’è spesso l’atteggiamento di mettere cerotti qua e là, ma i cerotti non permettono di fare un salto di qualità. C’è bisogno di quello. Non di modificare la legge, perché mettere mano alla legge è pericoloso, ma di fare un salto di qualità. La legge 184 è un’ottima legge ma ha 40 anni e i bisogni non sono più gli stessi: le famiglie non sono più le stesse. Con questo bisogna fare i conti, per trovare nuove soluzioni. C’è bisogno di innovazione, di elasticità, di fantasia anche. Di sostenere e accompagnare nuovi progetti sperimentali, che potranno andare bene o male… pur restando nella griglia normativa dell’istituto, c’è bisogno di trovare nuove risposte».

Non c’è bisogno di modificare la legge, perché mettere mano alla legge è pericoloso, ma di fare un salto di qualità. C’è bisogno di innovazione, di elasticità, di fantasia, di accompagnare nuovi progetti sperimentali

Cristina Riccardi, Forum Famiglie

Dalla domanda sulla necessità di mettere mano alla legge parte anche Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano. La sua risposta è netta e liquida senza mezzi termini qualsiasi ipotesi di intervento legislativo: «Sono molto preoccupata quando il legislatore continua a modificare sistemi così delicati, che hanno raggiunto un loro equilibrio. Certamente gli istituti possono essere adattati al mutare della società, ma io credo che il legislatore deve riflettere molto attentamente prima di lasciarsi travolgere da situazioni emotive determinate da fatti contingenti: su questi strumenti e istituti vanno fatte perché riflessioni estremamente delicate». Tant’è che con la riforma Cartabia che dovrebbe entrare in vigore il 17 ottobre («anche se presumibilmente verrà rinviata di almeno un anno», rivela Gatto) «l’impostazione della tutela minori fa un passo indietro rispetto alla situazione a cui noi eravamo pervenuti».

Certamente gli istituti possono essere adattati al mutare della società, ma il legislatore deve riflettere molto attentamente prima di lasciarsi travolgere da situazioni emotive e continua a modificare sistemi così delicati

Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano

Il contesto: i Tribunali per i minorenni dopo la Cartabia

Gatto parla di 13mila procedimenti pendenti in capo al Tribunale per i minorenni di Milano (che significano più bambini, perché in molti procedimenti sono coinvolti più fratelli) «ma oggi riusciamo ad occuparci solo dei provvedimenti indifferibili e urgenti, dove il pm ha sottolineato il rischio di salute dei minori».

Dei giudici onorari che a meno dell’ennesima proroga spariranno e della perdita di competenza e di specializzazione dei magistrati all’interno dei nuovi tribunali unici per la famiglia. Del fatto che nel quadro attuale, parlare di affido preventivo è quasi utopia.

Del giusto obiettivo del Governo di avere dati aggiornati sugli allontanamenti dei minori, «ma questo dato deve essere raccolto con una modalità strutturata, avvalendosi dei sistemi già in essere».

Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano (foto Marta Carenzi, Università Cattolica del Sacro Cuore)

Del fatto che oggi, con la riforma Cartabia, la proroga dell’affido oltre i 24 mesi sarà possibile solo su richiesta del pm e dietro presentazione di un progetto: «La situazione e le tempistiche sono tali che realisticamente già al termine del primo anno di affido bisognerà decidere che cosa si vuole fare con quel bambino, lo facciamo rientrare in famiglia o resta in affido? Bisogna partire in anticipo. La realtà dei fatti è qualcosa che oggi stride terribilmente con tutte le belle riflessioni che abbiamo condiviso oggi».


Il rilancio dell’affido? Passa da percorsi privilegiati nell’accesso ai servizi

Cosa è importante allora per rilanciare l’affido? La presidente Gatto è molto chiara. «Selezione, formazione e sostegno alla famiglia affidataria. Sempre più spesso vediamo famiglie che mettono fine all’affido ed è facile intuire con quale danno per i minori. Le famiglie non devono essere abbandonate dai servizi, perché un sostegno non adeguato può portare a una rinuncia», dice. L’altro aspetto – evidenzia Gatto – è che «gli affidatari vanno agevolati e sostenuti anche prevedendo percorsi privilegiati nell’accesso ai servizi. Penso ai servizi sanitari, al sostegno psicologico, alla neuropsichiatria, all’insegnante di sostegno dove serve, all’espletamento di tutte le pratiche burocratiche. Questi sono i temi su cui il legislatore deve puntare se vuole rilanciare l’affido, in una logica di sburocratizzazione».

Gli affidatari vanno sostenuti prevedendo percorsi privilegiati nell’accesso ai servizi sanitari, al sostegno psicologico, alla neuropsichiatria, all’insegnante di sostegno dove serve, all’espletamento di tutte le pratiche burocratiche. Questi sono i temi su cui il legislatore deve puntare se vuole rilanciare l’affido

Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano

Anche Michele Cantatore, psicologo del servizio Coordinamento Affidi del Comune di Milano e giudice onorario presso il TM di Milano racconta che all’affido si avvicinano «sempre più single, coppie senza figli, coppie omogenitoriali, coppie che non hanno avuto successo nei percorsi di adozione. Vediamo sempre più coppie centrate più sui propri bisogni che sui bisogni dei bambini, coppie con aspettative appropriative». D’altra parte però «le richieste di affido che arrivano dai servizi riguardano bambini che sono già in comunità da tempo, con grosse ferite e grosse difficoltà, sulla cui famiglia è stato fatto di tutto. Le famiglie di origine sono sempre più in cronicità, sono lì ferme nei loro percorsi. Ci sono, ma non riescono ad accompagnare i loro figli per rispondere ai loro bisogni».

Vediamo sempre più coppie centrate più sui propri bisogni che sui bisogni dei bambini, coppie con aspettative appropriative

Michele Cantatore, Coordinamento Affidi di Milano

Così se è vero che il Servizio Affidi di Milano delle 150 copie conosciute nel 2023, ne ha dichiarate idonee solo il 44% (il 31% sono state archiviate, le altre sono in attesa di valutazione) e che «dobbiamo tutti mettere in campo adeguati percorsi di formazione», per Cantatore, «i bambini che vivono in uno stato di semiabbandono permanente hanno diritto di avere rapporto con la famiglia di origine, ma anche il diritto ad avere certezze e stabilità. La necessaria chiarezza su questo punto può venire sono dal livello legislativo».

Le risposte del ministero

Al confronto ha partecipato tutto il giorno Assunta Morresi, vice capo di gabinetto della ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità. «Il ministero è fortemente intenzionato a promuovere affido e a sostenere le famiglie affidatarie perché ci rendiamo conto dell’importanza di questo istituto», ha sottolineato Morresi, che in passato è stata anch’essa mamma affidataria. Morresi ha evidenziato innanzitutto il cambio di prospettiva sull’affido che la ministra Roccella vuole realizzare: «In passato le competenze in materia di coordinamento delle politiche per il sostegno dell’infanzia e dell’adolescente e per la tutela dei minori erano in capo al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Nel 2018 queste competenze sono state attribuite alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e in particolare alla autorità delegata alla famiglia, ed è il motivo per cui il ministero che rappresento oggi è qui».

Le conseguenze del cambiamento finora forse si sono viste poco, «ma adesso noi vogliamo darvi concretezza. Si tratta di un vero cambio di paradigma perché significa passare da una visione dell’affido come politica pubblica di assistenza a una categoria svantaggiata, come risposta a un problema sociale, a concepirlo come una politica di sostegno alla famiglia. Passiamo dall’assistenza sociale a una dimensione di sussidiarietà», spiega Morresi. «Non più i minori come gruppo sociale da proteggere, ma da sostenere all’intento della famiglia. Non più il minore come corpo separato, ma visto all’interno del nucleo familiare. Questo significa che le reti delle famiglie sono il corpo intermedio dell’affido e delle politiche familiari. La prima questione quindi è la valorizzazione e la promozione del sostegno e del mutuo aiuto tra famiglie».

Assunta Morresi, vice capo di gabinetto della ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità (foto Marta Carenzi, Università Cattolica del Sacro Cuore)

L’Osservatorio Infanzia e Adolescenza, ha ricordato Morresi, «ha un gruppo di lavoro dedicato ad affido e nel prossimo Piano infanzia saranno indicate politiche specifiche di valorizzazione dell’affido in questa ottica di politica familiare non di politica sociale. Come abbiamo sentito oggi, la soluzione non è mai una: dobbiamo offrire tante possibilità diverse».

L’altro impegno del ministero è quello per «favorire il racconto delle esperienze di affido, perché è proprio l’esperienza di chi accetta l’“avventura” dell’affido che può combattere le ostilità, la diffidenza, il timore. Io e mio marito per esempio non avevamo dato disponibilità per l’affido: abbiamo incontrato una storia specifica di un bambino specifico e abbiamo detto perché non noi. Oggi giustamente ci interroghiamo sul modo in cui raccontiamo l’affido e io credo che il modo migliore sia quello di farlo raccontare da chi lo fa e la vive. Uno conosce sì leggendo ma ancora di più entrando in relazione con chi le cose le fa. Tant’è che ad avvicinarsi all’affido spesso sono famiglie amiche di altre famiglie che già hanno un’esperienza di affido… le esperienze vanno raccontate perché sono attrative».

In questi mesi abbiamo già raccolto diversi suggerimenti per migliorare il disegno di legge sulla raccolta dati, da parte nostra c’è grande disponibilità di ascolto. L’iter parlamentare ovviamente comincerà con delle audizioni e l’invito è che tutti partecipino alla discussione

Assunta Morresi, vice capo di gabinetto della ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità

L’avvio imminente alla Camera dell’iter parlamentare del disegno di legge “Disposizioni in materia di tutela dei minori in affidamento”, «sarà l’occasione non solo per migliorare il decreto, ma anche per vedere attorno al tavolo tutti gli attori che governano il tema dell’affido», è l’invito caloroso di Assunta Morresi. Un disegno di legge che «ha avuto esordio vivace», sorride Morresi, «ma che si limita a raccogliere dati aggregati». D’altronde, spiega, «per poter coordinare le politiche abbiamo bisogno di dati e se gli ultimi dati disponibili risalgono al 2020, che cosa coordini? Questo non significa che il modello che abbiamo indicato per la raccolta dei dati sia il migliore possibile, anzi, in questi mesi parlando con diversi stakeholder abbiamo già raccolto diversi suggerimenti per migliorare il disegno di legge, da parte nostra c’è grande disponibilità di ascolto. L’iter parlamentare ovviamente comincerà con delle audizioni e l’invito  è proprio quello che tutti partecipino alla discussione. La nostra idea sui dati è quella di creare un flusso, per cui a regime ci sarà un unico portale dove ogni amministrazione inserisca i dati di sua pertinenza, dati da raccogliere in maniera snella e efficace ma che in tempo reale ci permettono di capire dove stiamo andando. La frammentazione che c’è stata finora non ha funzionato. Raccogliere dati per coordinare meglio le misure. Non c’è altro, voglio ripeterlo».

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Le riflessioni raccolte in questo articolo sono state espresse nel convegno “Rilanciare l’affido familiare. L’interesse del minore nei percorsi di accoglienza” organizzato venerdì 14 giugno all’Università Cattolica di Milano dal Centro Studi e ricerche sulla famiglia o raccolte al margine di esso. Le foto sono di Marta Carenzi, Università Cattolica del Sacro Cuore.

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