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Datemi nove borghi e faccio rinascere il Meridione

Daniele Kihlgren

di Mattia Schieppati

Per tanti sindaci del Meridione, sparsi tra Abruzzo, Basilicata e Calabria, è “il metodo Kihlgren”. In parole povere, per tante piccole amministrazioni locali è l’ultima spiaggia per riportare alla vita il proprio paesello abbandonato da Dio (che notoriamente si è fermato a Eboli) e, soprattutto, dagli uomini. Piccoli borghi appenninici, centri storici disabitati – fatto salvo qualche ultraottantenne che resiste – cinti da mura in sfacelo, ex villaggi rurali che, finite le pecore e fuggiti i giovani, restano lì silenziosi. «Avrò 300 mail di sindaci in attesa. Fosse per loro, dovrei comprarmi mezza Italia. Ma non è questo lo scopo del progetto». A parlare è Daniele Elow Kihlgren, 45 anni, padre svedese e mamma discendente da una dinastia di grossi costruttori, gioventù molto inquieta e un sacro fuoco che lo tiene incollato a questo suo progetto da poco più di un decennio.
«È una delle persone che ha meglio fatto per il patrimonio artistico italiano», ha detto di lui Vittorio Sgarbi. La stampa, italiana e straniera, gli ha trovato diversi soprannomi: “l’ultimo meridionalista”, “lo svedese che salva i borghi”, “il giovane mecenate”. Il tutto da quando, nel 1999, ha applicato per la prima volta il “metodo” che porta il suo cognome. Narra la leggenda che, gironzolando in moto per l’Appennino abruzzese – era il 1998 – si trovò davanti a una visione che lo incantò: il borgo semidisabitato di Santo Stefano di Sessanio, 1.250 metri su una pendice nel Parco nazionale del Gran Sasso, a mezz’ora d’auto da Pescara ma a un secolo dalla civiltà. Ci ragionò un attimo («pochi secondi», precisa), e decise: ha contattato uno a uno i proprietari delle diroccate case del borgo, chi stava a Roma, chi in America, chi in Australia, le ha acquistate (in sei anni, un quarto del paese, 4mila metri quadrati sparsi tra case e casette), e ha iniziato un rigoroso lavoro di restauro conservativo. Solo materiali di recupero, tecniche di costruzione e arredi originali… Realizzando un albergo diffuso, con camere distribuite nelle diverse strutture recuperate, e in più alcuni di questi immobili, sempre “rimessi a vecchio”, proposti in vendita per rientrare dell’investimento.
Un intervento che ha riportato il borgo alla vita. «Quando sono arrivato, c’erano solo 3 attività ricettive a Santo Stefano, aperte nel periodo estivo. Ora sono 15. Il 75% delle abitazioni era abbandonato, c’era solo una manciata di vecchiette; ora Santo Stefano conta 120 abitanti. Dal 2008 qui arrivano 7.300 turisti l’anno, nel 2001 erano 280».
Il “metodo” è stato replicato a Matera, in 18 “sassi” avuti in comodato dal Comune, ristrutturati e messi a disposizione dei turisti senza che venisse snaturato il loro vissuto storico. E ora nel “portafoglio” ne ha altri sette, tra piccole frazioni, blocchi di case, interi centri storici tra Abruzzo, Basilicata, Campania e Calabria: Martese, Rocchetta al Volturno, Montebello sul Sangro, Rocca Calascio…. E anche lì vuol portare il “metodo”. Se i sindaci gli scrivono mail, è per questo. Perché sperano che anche da loro si compia il miracolo.
Perché, dopo decenni di indifferenza, si è dovuto attendere che un giovanotto di neanche quarant’anni si mettesse a spendere i suoi soldi per riportare la vita in queste parti di Italia?
Perché purtroppo nel nostro Paese non ha mai trovato spazio la cultura del paesaggio. Se una cosa non ha una firma, non è davvero considerata “patrimonio”. In Italia Giotto è da tutelare, Villa Medici è da tutelare. Questi borghi incastellati, con case e mura costruite non si sa da chi, non sono il frutto di una ricerca estetica, ma il prodotto socio-antropologico di una comunità. E così non interessano a nessuno, non sono intesi, nella loro coralità, come dei “beni culturali”. Eppure, sarò matto, ma non riesco a trovare niente che sia più seduttivo di questi luoghi, con la loro integrità, l’anima della storia che senti uscire pura dal territorio….
Qual è il cuore del “metodo Kihlgren”? Che differenza c’è tra la sua attività e una “normale” speculazione edilizia?
È il rispetto, direi quasi l’amore, che siamo riusciti a imporre per il concetto di identità. Identità a livello paesaggistico, a livello antropologico, a livello storico-architettonico. Prima di intervenire su Santo Stefano abbiamo registrato ore e ore di interviste con chi era vissuto qui e poi era emigrato, per sapere cos’era il borgo ai loro tempi. Abbiamo usato solo materiale di recupero, per gli arredi interni abbiamo fatto ricerche con gli esperti del Museo delle Genti d’Abruzzo e con l’Archivio Scheuermeier, che aveva fotografato gli interni originali. Oggi noi riproponiamo l’artigianato domestico che si faceva a Santo Stefano fino alla fine della civiltà pastorale, con la quale è nato e morto questo borgo. Per la prima volta abbiamo dato vita, in Italia, a una destinazione turistica senza versare il solito massacro di cemento.
Questi luoghi sono rimasti puri perché il mondo li ha dimenticati. Ora che ne parla il “New York Times”, come si fa a mantenerli “vergini”?
A questa cosa ci ho pensato non una, ma dieci miliardi di volte. La risposta sta tutta nell’accordo che proponiamo ai Comuni quando ci prendiamo in carico l’intervento. Noi chiediamo solo una cosa: un vincolo che impedisca la costruzione di case nuove tutto intorno. Solo restauro, niente cemento ex novo, niente cubature aggiuntive.
Il suo è un modello che fa gola, che altri imprenditori potrebbero replicare. Un consiglio ai suoi possibili concorrenti: che cosa non bisogna fare?
Prima cosa, ben vengano i concorrenti. Nel Sud Italia ci sono duemila borghi abbandonati, 15mila con abbandono al 90%, c’è spazio per tutti. La cosa da non fare è Chiantishirizzare questi posti. Trasformarli in cartoline per inglesi che vengono in vacanza, con i ristoranti con il menù in tre lingue e i negozi – finti – di prodotti tipici. È sbagliato anche commercialmente. Devi essere onesto, autentico tu per primo quando intervieni su questi borghi, e devi farlo rispettandone l’identità. La nostra grande strategia è che ce ne siamo fregati totalmente di quello che voleva il mercato. Abbiamo puntato su un progetto serio, e poi il mercato è arrivato. Alla faccia degli architetti.
Perché, che cosa le hanno fatto gli architetti?
Gli architetti ci vogliono sempre mettere del loro. Non è facile fargli capire, e poi far capire ai muratori, che le sgraziature delle case vanno lasciate, che l’irregolarità dei muri, le nicchie, sono il bello di questi luoghi. Sono tutte le tracce che la povertà ha lasciato, e purtroppo anziché capirne il valore, si pensa che bisogna nascondere questa storia di miseria. Facendo di bei muri dritti, togliendo il nero dalle pietre. Sbagliato.
Ha mai pensato di esportare questo suo modello in qualche borgo del Nord Italia?
Sì, ho richieste anche dal Nord. Ma nel territorio alpino è diverso, c’è un enorme rispetto per i luoghi marginali: non c’è la vergogna della povertà. Per un ragazzo laureato che sta in città andare a passare la giornata nella baita dove vive ancora il nonno non è una cosa da fare di nascosto, di cui ci si vergogna a parlare, come succede al Sud. Io però continuo a sperare che, anche attraverso il piccolo contributo dei nostri interventi, il Sud superi questa “vergogna” e capisca che deve andare orgoglioso del proprio passato. Trattarlo da patrimonio.


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