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Dopo l’onda di fango le paludi del silenzio

Viaggio nel Paese africano devastato dai cicloni. La confusione dei soccorsi, la disperazione dei sopravvissuti

di Cristina Giudici

Visto dall?alto, lungo la linea d?aria che porta dalla capitale Maputo su verso Nord, fino al porto di Beira nella provincia di Sofala, il Mozambico centromeridionale è una terra alluvionata che tenta, senza fretta, di emergere dall?acqua, dal fango e dalla melma. Visto dall?elicottero di un?organizzazione umanitaria americana, l?Air Serve, che ogni giorno porta viveri e medicine a città e villaggi ancora isolati a due mesi dalla prima inondazione, l?ex colonia portoghese sembra un Paese inginocchiato che si rialza lentamente per ricominciare tutto da capo, ancora una volta. Ma basta mettere i piedi sulla terraferma per capire quanto la catastrofe venuta dal cielo, dalle piogge torrenziali e da terra, dalle dighe aperte dai Paesi confinanti, Sud Africa e Zimbabwe (per impedire alle piogge cadute sull?Africa australe di compiere disastri di proporzioni maggiori), sia stata violenta e feroce. Come una guerra, forse peggio di una guerra, l?onda che ha sommerso centinaia di chilometri di regioni pianeggianti ha ridotto un quarto del Paese a un colabrodo. Lungo la strada provinciale che parte dalla capitale ci sono solo villaggi senza vita, dove si scorgono tetti di capanne sfondati dalla violenza dell?acqua, ponti crollati, tralicci dell?elettricità piegati, città deserte. Il bilancio dei danni, tratteggiato dall?Istituto nazionale delle calamità naturali di Maputo riporta cifre da capogiro: 800 mila sfollati, 350 mila capi bovini e ovini morti (il 70% del bestiame del Paese) infettati o feriti, 140 mila ettari di colture (mais, fagioli, riso, patate dolci) distrutti e quasi 1000 morti fino ad ora accertati. Danni che, secondo i calcoli del governo, ammontano a ben 100 milioni di dollari. In viaggio sulla provinciale Il nostro viaggio per terra e per aria inizia proprio sulla strada provinciale numero 1 che porta più a nord, verso la regione di Gaza, la più danneggiata dalle alluvioni di febbraio. Già pochi chilometri fuori dalla capitale, il panorama è quello di una terra desolata, dove l?unico rumore percettibile è quello della brezza che disperde il tanfo insopportabile delle acque stagnanti. Non c?è più nessuno a pregare Dio che le piogge, tanto invocate nei periodi della siccità, cessino. Non c?è più nessuno appollaiato su un albero a piangere e ad aspettare la salvezza dal cielo, gli elicotteri arrivati solo nella prima settimana di marzo. Ora, per chilometri e chilometri c?è solo un intollerabile silenzio. Per incontrare degli esseri umani bisogna fermarsi nei campi profughi, allestiti da organizzazioni umanitarie internazionali e missionari cattolici, lungo la strada che porta su fino a Xei-Xei, città ancora sprofondata nell?acqua. A Macia incontriamo le prime migliaia di profughi che dopo una lunga attesa hanno ricevuto tende e viveri. Sguardi rassegnati, occhi ridotti a fessure di speranza, gesti rallentati dall?afa e dalla capacità di tollerare continue e ripetute tragedie. Uomini, donne e tanti bambini, quei volti d’Africa che ogni tanto irrompono sugli schermi delle televisioni occidentali, sempre uguali: occhi allampanati, ventri gonfi, pelli raggrinzite dalla fame. Qui, oggi si consuma una tragedia nella tragedia e un bambino, sfuggito alla morte per annegamento il 26 febbraio, ha incontrato il suo feroce destino sotto le ruote di una macchina. La madre si rivolta nella polvere urlando in dialetto shangana: «Dio, come farò a tornare a casa senza mio figlio. Mi hanno tolto la casa, la terra e ora anche mio bambino. Dio, perché?». Più avanti, la strada devia verso Chokwe, dove prima vivevano 60 mila abitanti e oggi non c?è più nessuno. Sono tutti ammassati in un altro, sterminato campo profughi, allestito da Caritas internazionale, Pam, Croce Rossa ed esercito spagnolo, a 20 chilometri dalla città. Qui i profughi hanno addirittura un impianto di acqua potabile e un sofisticato ospedale da campo che fa girare la testa ai pochi medici mozambicani, costretti a combattere ogni giorno contro la penuria di medicine. Le organizzazioni umanitarie sono riuscite a fare un ottimo lavoro – ma l?Italia brilla per la sua assenza e, nonostante due settimane fa abbia deciso di stanziare 3 miliardi per l?emergenza, 5 da affidare alle ong presenti e successivamente altri 4 per la ricostruzione, dal nostro Paese è arrivato solo un volo umanitario e gira già una barzelletta sugli elicotteri che il nostro governo voleva mandare via nave nei giorni delle alluvioni – però non si smette di soffrire inutilmente. Sì, perché i volontari della Chiesa universale di Dio sono arrivati nei giorni scorsi con 13 camion pieni di viveri, hanno iniziato a lanciare sacchi di farina come si fa per calmare l?ira di cani idrofobi. Risultato, nella confusione creata dalle migliaia di mani che si aggrovigliavano per afferrare i pacchi, i volontari sono stati presi dal panico e scappando hanno investito 5 profughi: uno di loro è morto e gli altri sono finiti all?ospedale dell?esercito spagnolo. L?accusa di suor Maddalena A Chokwe, dicevamo, non c?è più nessuno. O quasi. Alcuni abitanti, i più testardi, hanno intrapreso il viaggio di ritorno verso casa, o meglio verso quell?ammasso di terra, melma e detriti dove prima c’erano le loro case. Vengono qui per vedere cosa è rimasto nella speranza di recuperare qualcosa, un suppellettile marcito, un letto arrugginito. Sembra una città abbandonata dopo un bombardamento. Le case di cemento sono ancora in piedi, segnate a tre metri di altezza dall?ombra lasciata dall?acqua che ormai si è ritirata. Nel centro uno spettacolo terrificante: l?ospedale della città equipaggiato e attrezzato grazie alla costante presenza dei medici volontari del Cuamm Medici per l?Africa, un?organizzazione non governativa di Padova che collabora con le autorità sanitarie dal 1978, è completamente distrutto. Le pareti, quelle sì ci sono ancora, ma tutto il resto è ricoperto dal fango rinsecchito. Fuori, sul piazzale dell?ospedale, oltre ai nugoli di zanzare portatrici di malaria, ci sono letti e culle arrugginite, cartelle cliniche imputridite, attrezzi chirurgici inservibili. Qui, quando è arrivata l?onda maledetta, sono rimasti in pochi ad assistere gli abitanti rifugiati su tetti ed alberi. Fra loro c?erano le missionarie Figlie della Carità che ora accusano le autorità locali di aver abbandonato la popolazione al suo destino. «Sono scappati tutti alla prima pioggia», dice suor Maddalena, italiana, che ha vissuto per una settimana all?ultimo piano del convento carmelitano, assistendo malati di Aids e di tubercolosi, trasportandoli sulla torre del convento. «Poi per estorcere più soldi alla comunità internazionale hanno dato il falso allarme di una nuova inondazione. Il 21 marzo hanno fatto pubblicare una foto della città allagata, ma non era vero niente. E siccome noi, con i volontari di Medicine sans frontières, volevamo aiutare la gente e abbiamo aperto un improvvisato pronto soccorso, siamo stati obbligati a fermarci. Le autorità vogliono che la città rimanga terra bruciata per ricavarne un po? di soldi in più». L?oblio dei mass media Forse ha ragione suor Maddalena, se è vero ciò che dice anche il padre missionario della Consolata Gianfranco Graziola, che nei giorni scorsi ha lanciato un appello attraverso la Misna, l?agenzia di stampa missionaria, affinché si verifichi l?utilizzo dei fiumi di dollari arrivati anche se con un grande ritardo nella capitale del Mozambico. Infatti, ora che i voli umanitari si stanno diradando e l?emergenza Mozambico è scomparsa dai mass-media, la situazione è peggiorata. Le acque stagnanti hanno provocato un aumento vertiginoso di malaria, infezioni intestinali, diarrea. I pochi ospedali funzionanti si riempiono di malati e bambini agonizzanti. E a far fronte all?emergenza sanitaria sono rimasti solo i volontari che hanno sempre assistito il Paese: durante la guerra civile, la ricostruzione, la siccità, la miseria. E oggi, la pioggia.


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