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Cooperazione & Relazioni internazionali

Dubai in bancarotta Ma in crisi ci vanno Bangladesh e Pakistan

Ecco chi pagherà la crisi degli Emirati

di Christian Benna

Con i cantieri chiusi milioni di lavoratori torneranno a casa.
Così tutta l’Asia che vive di rimesse è a rischio. E in testa alla lista
ci sono Dacca e Islamabad. Ma anche l’India trema Se si ferma la Disneyland dei ricchi, i primi a scendere dalla giostra saranno i più poveri. Perché Dubai non è solo un affare per paperoni in business class – doppie, triple residenze e speculazioni sul mattone – ma anche un gigantesco hub delle rimesse che tiene in vita mezza Asia. Nello Stato del Kerala, nell’India meridionale, un dollaro su quattro, il 25% del Pil, arriva dalle impalcature che inseguono la corsa ai record d’altezza dei grattacieli dell’emirato. Circa 4,5 milioni di indiani lavorano nella regione – la metà a Dubai e il 62% è impiegato nelle costruzioni – garantendo un flusso di denaro al Paese di origine di 10 miliardi di dollari l’anno, un quinto dei 52 miliardi che gli immigrati spediscono da tutto il pianeta verso il subcontinente indiano.

Immigrati di serie Z
Salire sui ponteggi dei faraonici cantieri della città-Stato, la più nota e spericolata delle sette che formano gli Emirati Arabi Uniti, non è però un’impresa facile. Costa più di mille dollari infatti il biglietto che assicura casco, cassetta degli attrezzi e un contratto a tempo determinato rinnovabile ogni due anni: a tanto ammonta la cifra da versare alle agency job. Il passaporto poi viene lasciato in custodia al datore di lavoro, per prevenire la fuga di qualche “testa calda”; nessun diritto sindacale è concesso, mentre sono assicurati solo orari d’inferno (a Dubai si costruisce giorno e notte) e una paga da fame di 1.500 dirham, pari a 410 dollari al mese, e residenza a Sharjah, l’emirato dirimpettaio di Dubai.
L’associazione Human Rights Watch ha denunciato più volte la condizione degli operai di serie Z di Dubai. Ma tant’è. Gli indiani che lavorano nel paradiso arabico rappresentano il 40% della popolazione e producono il 12% delle rimesse che ogni anno vengono inviate in India. Li hanno chiamati i nuovi schiavi della Disneyland del deserto, tute blu globalizzate pronte a tutto pure di mandare a casa qualche soldo.
La giostra dello sceicco Mohammed bin Rachid Al Maktum, valvola di sfogo della regione in mezzo alla severità dei costumi dei vicini sauditi, con i suoi hotel di lusso, centri commerciali, zone tax free e alcol free, ha garantito – almeno fino a ieri – la sopravvivenza di milioni di famiglie indiane. E non solo. Se nell’area si dovesse scatenare un effetto domino, a seguito della caduta degli dei di Dubai rischiano di evaporare come miraggi le rimesse di una buona fetta di Asia. Il denaro inviato dal Golfo verso il continente vale il 21% del totale delle rimesse globali, con picchi del 63% in Bangladesh e del 52% in Pakistan. Chiusi i rubinetti di Dubai e fermi i cantieri della selva dei grattacieli nel deserto, i Paesi in via di sviluppo possono subire un tonfo ben più dolente di quello dei mercati finanziari.

Si torna a casa
La scenario diventa ancora più scuro se si considera che nell’anno della grande crisi le rimesse globali sono calate del 7% (a 250 miliardi di dollari) e sono diminuiti i fondi per la cooperazione allo sviluppo. Con i primi segnali della crisi molti lavoratori sono stati rimandati a casa. L’ipotesi di bancarotta della holding statale, che ha chiesto una moratoria sul debito di 59 miliardi di dollari (ma che potrebbe valere molto di più, secondo alcuni analisi), getterebbe nel panico milioni di famiglie. Il fenomeno del “return migration” incomincia a preoccupare i Paesi asiatici. Il 30% dei lavoratori indiani a Dubai, secondo stime del ministero degli Affari esteri di Nuova Delhi, sarebbe già tornato in patria.


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