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E se l’associazionismo sportivo fosse al completo?

di Massimo Achini

Non è facile capire cosa ci sia davvero a monte della decisione di quella società sportiva triestina di “licenziare” un gruppo di ragazzini: “capienza” esaurita, stanchezza, effettiva carenza di operatori, discutibili politiche selettive o altro. È facile capire invece lo sconcerto di quei genitori che hanno affidato con fiducia i loro figli allo sport e oggi si vedono chiudere la porta in faccia.

Sono certo che, superata la prima amarezza, avranno già trovato altre società sportive più accoglienti o meglio organizzate, poiché per fortuna il tessuto dell’associazionismo sportivo di base del nostro paese è largo ed è in grado di assorbire in un modo o nell’altro la voglia di sport dei ragazzi. E da quel dirigente che ha scritto perentoriamente a sei bambini di otto anni, quasi fossero degli adulti, e come fossero già i primi “fuorirosa” al pari delle società di vertice, sarebbe magari auspicabile quanto opportuno un dietrofront pubblico, una dichiarazione di responsabilità, perché ritengo che un dirigente principalmente oltra al diritto al gioco, debba orientare i giovani al rispetto.

Ma la faccenda rivelata dal Corriere della Sera è buona per fare qualche considerazione di prospettiva, partendo sempre dal fulcro centrale che ancora una volta occorre ribadire e cioè che lo sport è un diritto di tutti. Personalmente potrei dire che un caso così prima o poi, nelle circostanze attuali, me l’aspettavo, anzi me ne aspettavo più di uno. Lo sport delle piccole società sportive, degli oratori, delle parrocchie è esposto come e più di altri settori alle conseguenze del momento difficile che vive il Paese. Da un lato si chiede allo sport di allargare le sue braccia, e quindi i suoi benefici  in termini di educazione e di salute, a un numero sempre crescente di ragazzi, dall’altro lo si abbandona a se stesso e ai suoi problemi.

Il “miracolo” del nostro sport giovanile, che consente a più di un ragazzo su due di praticare lo sport, bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto fate voi, si regge essenzialmente su due fattori: le risorse umane fornite da un volontariato generoso, “eroico” nella sua disponibilità a sacrificarsi per il bene comune; le risorse economiche, poche ma essenziali, fornite dalle istituzioni territoriali. Oggi il sistema regge, ma se domani paradossalmente la percentuale di bambini e ragazzi desiderosi di sport aumentasse dal 50% al 70 o 80%, come pure tutti vorremmo, come ce la caveremmo fermo restando – se non diminuendo – la disponibilità di risorse umane e economiche, senza dimenticare quelle impiantistiche? Dovremmo sperare in un altro miracolo, quello evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci? Può un paese, per sviluppare un settore che ritiene di primaria importanza per il futuro, unicamente sperare che qualche “miracolo” accada, invece di mettersi a sedere e decidere programmando cosa vuole e come intende ottenerlo? Sarebbe davvero amaro se l’associazionismo sportivo, dopo aver lottato per decenni per promuovere la causa dell’attività sportiva giovanile come sistema di vita, si trovasse domani di fronte alla sconfitta di dover dire a genitori come quelli di Trieste “No, grazie, ripassi un’altra volta. Siamo al completo”.

 

 


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