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Economia & Impresa sociale 

Equità contro paura

Che cosa serve per fermare i populismi? I quattro punti dell'economista Leonardo Becchetti perché «non è solo sulle opportunità per gli eccellenti ma anche su una vita decente per i normali che si gioca il successo del contrasto allo spettro dei nazionalismi»

di Leonardo Becchetti

La crescita economica in Italia si conferma sui livelli stimati dal governo, con il Pil aumentato dello 0,3% nel primo trimestre: un buon segnale ma non abbastanza forse per scacciare definitivamente le paure che la lunga crisi ha instillato nei cittadini. E sarebbe un grave errore sottovalutare proprio i segnali di paura e malcontento che con puntualità arrivano, in molte parti d’Europa, dalle tornate elettorali che si succedono.

Bollare tutto ciò solo come il prodotto di ignoranza o populismo vorrebbe dire fingere di non vedere i problemi più profondi. I dati medi, direbbe Trilussa ricordando la famosa storia del pollo, sembrano inventati apposta dalla classe più alta per nascondere i nodi delle diseguaglianze. I ceti medio-bassi, infatti, hanno accusato un arretramento molto significativo in termini di qualità della vita negli ultimi decenni.

I benefici della globalizzazione tanto decantati dalla top class cosmopolita di chi può vendere la propria eccellenza ad un mercato sempre più grande sono molto meno percepibili ai lavoratori meno qualificati e specializzati che ingrossano le fila dei ceti medio-bassi e vivono la concorrenza di un esercito agguerrito di lavoratori mondiali a basso costo che hanno energie e motivazioni superiori perché devono uscire dalla trappola della miseria. Se ci fosse maggiore capacità di immedesimarsi nei loro panni e guardare il mondo dalla loro prospettiva invece che solo da quella dei primi e dei tutelati ci si accorgerebbe che le loro paure non sono fantasie.

In sette anni post-crisi il reddito medio disponibile è sceso di quasi 15 punti percentuali e ancora di più se guardiamo solo ai percettori di reddito medio-basso. Di lavoro ce n’è sempre meno e quando c’è è precario e di cattiva qualità tanto da aver generato una categoria nuova dei working poor (i lavoratori poveri), e ovviamente il tasso di disoccupazione dei low skilled (chi ha basse competenze) a basso livello d’istruzione è più elevato di quello degli altri gruppi sociali. Il paradosso politico in questa nuova fase storica è il capovolgimento delle posizioni tra destra e sinistra in molte parti d’Europa.

Dalle ceneri di una sinistra ex marxista che sembra avere per questo un complesso e voler diventare più realista del re per cancellare il proprio peccato originale nasce una sinistra ultraliberale che decanta le virtù del libero mercato, del talento e dell’eccellenza. E bolla le paure dei ceti medi e medio-bassi con il marchio del populismo. Il suo errore è quello di ragionare solo sugli eccellenti e non pensare anche a costruire una società decente e solidale per chi non ce la fa ad essere primo della classe. La destra invece pare molto più consapevole del problema e della radice delle paure che sfrutta però soffiando sul fuoco dei nazionalismi e individuando due capri espiatori negli stranieri e nell’euro. La capacità futura del governo di mantenere il potere si gioca in realtà proprio nel saper comprendere prima e di rispondere efficacemente poi a queste paure con qualcosa di meno effimero degli 80 euro.

La risposta ottimale si articola a mio avviso in quattro punti. Una politica monetaria ancora più coraggiosa dell’attuale nella quale la Bce trasferisca denaro ai cittadini direttamente (people quantitative easing) e non più tramite le banche che non lo fanno poi affluire al settore produttivo approfittando di questa fase di deflazione e sostenendo in modo deciso la domanda aggregata. Una politica fiscale veramente espansiva a livello europeo che rilanci gli investimenti. Un reddito di cittadinanza che diventi anch’esso sostegno alla domanda aggregata e promuova al contempo la dignità dei riceventi tenendo saldo il timone sull’obiettivo del reinserimento del mondo del lavoro o comunque della “piena attività” anche attraverso lavori sociali. Il primo e il terzo punto potrebbero saldarsi con un reddito di cittadinanza fornito in cambio di prestazioni di lavoro e finanziato dalla Bce che aumenterebbe senz’altro la reputazione dell’Ue agli occhi dei suoi cittadini. L’ultimo tassello fondamentale è quello di una strategia fiscale che penalizzi non il momento della produzione ma quello del consumo finale i prodotti provenienti da filiere a minore sostenibilità sociale e ambientale. Ovvero, applicando il principio al tema della sostenibilità ambientale, non una carbon tax ma una green consumption tax. Mentre infatti la vecchia carbon tax alla Pigou (l’economista che la “inventò”) in un mondo globalmente integrato finirebbe per alzare il differenziale di costo di produzione con i concorrenti esteri, facendoci perdere altra occupazione, la green consumption tax penalizzerebbe sullo scaffale dei punti vendita i prodotti più inquinanti e con meno dignità del lavoro promuovendo la dignità del lavoro sia da noi che nei Paesi del Sud del mondo. Questa strategia fiscale sarebbe fondamentale per evitare che la globalizzazione diventi una corsa al ribasso sui diritti del lavoro e la tutela dell’ambiente e per assicurare che i suoi benefici possano distribuirsi su una fascia più vasta della popolazione. Non è solo sulle opportunità per gli eccellenti ma anche su una vita decente per i normali che si gioca il successo del contrasto allo spettro dei nazionalismi e la costruzione di una globalizzazione che sia corsa al rialzo e non al ribasso sui diritti della persona.

L’Avvenire 14-05-2016


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