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Europee, la società civile non stia a guardare

L'intervento del sociologo Mauro Magatti: «Per sventare i rischi che si muovono dietro i populismi che attraversano il continente si deve dunque sperare che le elezioni siano l’innesco non solo di una fase politica diversa»

di Mauro Magatti

Elezioni europee 2014. Proviamo a mettere in fila alcuni dei recenti passaggi storici che ci hanno portato fino ad oggi:  1989, caduta del muro di Berlino; 1992 unificazione tedesca; 2002 nascita dell’euro; 2008 grande crisi economica-finanziaria mondiale (che l’Europa affronta con una moneta unica ma senza unità politica). Solo se si tengono presenti questi grandi eventi storici e la loro concatenazione è possibile capire quello che è successo e sta succedendo, e cioè che  la via scelta per unire l’Europa (l’integrazione economica)  rischia di portare ad uno di questi due esiti negativi: o la rottura dell’Unione oppure un’integrazione ottenuta a costo della desertificazione economica di una larga parte del continente. In particolare, tutta l’area  che si concentra a Sud, nelle aree a tradizione non protestante.

Quasi a dire che queste regioni non sono sono state all’altezza del passo impegnativo che la Germania unita, e i Paesi a lei più vicini, hanno imposto alla zona economica della moneta comune per far fronte alle sfide provenienti della globalizzazione. Il punto da capire è che i tedeschi sono arrivati  all’appuntamento della crisi da due decenni nei quali avevano prodotto un  grande sforzo collettivo in nome di un progetto politico ambizioso quale la riunificazione. Da questo punto di vista, sono arrivati all’appuntamento come  formiche che, in tempi  di vacche  grasse (per effetto della finanziarizzazione che prometteva una crescita illimitata) hanno accumulato molto riserve. Mentre l’Italia, e con l’Italia  gli altri paesi del sud d’Europa, viene da decenni nei quali ha vissuto spensieratamente, nel racconto berlusconiano della società del godimento, senza considerare che, prima o poi, sarebbe venuto l’inverno.

In effetti, sarebbe ingeneroso  attribuire tutte le colpe all’euro o alla Germania. La responsabilità della situazione nella quale ci troviamo è prima di tutto nostra. Fare le riforme, risanare la finanza pubblica, investire sul nostro futuro sarebbero dovuti essere obiettivi da perseguire molto tempo fa. Tuttavia, è altresì vero che  i paesi del sud Europa non possono, nello stesso tempo, risanare i conti pubblici, fare le riforme e rilanciare la crescita. Se non pagando costi umani altissimi. È in questo aggrovigliatissimo nodo storico che ci troviamo. Un nodo che, per  essere sciolto, ha bisogno di due spinte. La prima  riguarda un deciso  cambiamento  di rotta nella politica  economica europea. Non si tratta di tornare a garantire le cicale. Si tratta, invece,  di capire che l’integrazione economica Europea passa dall’apertura di una grande stagione di crescita basata sulla ricerca, la scuola  l’innovazione, gli investimenti. Creando nuove possibilità di  lavoro per i giovani. La politica da sola però non ce la farà. Occorre anche una seconda spinta proveniente dalla società civile europea: è possibile che, di fronte ad una gravissima crisi economica, sociale, istituzionale, cooperative, sindacati, Terzo settore, associazioni non si siano fatti sentire? Come è possibile che l’Europa sociale sia stata zitta?

Urge, allora,  un impegno da parte di questi soggetti che devono porsi il problema di una mobilitazione continentale. Così da  spingere l’Europa fuori dal vicolo cieco in cui si trova. Per sventare i rischi che si muovono dietro i populismi che attraversano il continente si deve dunque sperare che le  elezioni siano l’innesco non solo  di  una fase  politica diversa, ma anche  di un protagonismo nuovo della  società civile europea.


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