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Gli ammalati della dieta a digiuno anche di cure

Sessantacinquemila i colpiti, 8500 i nuovi casi all'anno, ma a rischio sono oltre mezzo milione di giovani. Mentre il pericolo anoressia minaccia sempre più anche i bambini.

di Mariateresa Marino

Anoressia e bulimia, lotta contro il cibo e contro il proprio corpo. Una battaglia strenua contro le pulsioni naturali, uno sfinimento incessante che annulla anche la coscienza di sé. Del corpo resta un’ombra, della psiche un riflesso confuso. La scorsa settimana sono stati resi noti i risultati di una indagine durata due anni, promossa dalla Commissione ministeriale per l’assistenza ai pazienti affetti da anoressia e bulimia nervosa. La Commissione istituita nel marzo ’97 sotto la pressione della pubblica opinione ha condotto un’indagine a livello nazionale con lo scopo di capire l’identikit di chi soffre di questi disturbi e, soprattutto, di sapere quante strutture esistono in Italia capaci di curarli. Cifre stimate per difetto Va subito detto che dati epidemiologici generali sull’incidenza della malattia su scala nazionale ancora non esistono: la ricerca statistica della Commissione ha infatti ristretto il campo alla fascia di popolazione più a rischio, quella delle giovani donne tra i 15 e 24 anni, stimando poi la diffusione della malattia sull’intera popolazione. Il numero di giovani che in Italia soffrono di anoressia e bulimia, due facce della stessa medaglia che è il rifiuto del cibo, aumenta con un ritmo preoccupante: 8.500 nuovi casi l’anno, 65.000 giovani colpiti, di cui il 10% uomini (l’ingresso nel tunnel anoressia del mondo maschile rappresenta una preoccupante novità), e il resto giovani donne, 15 persone ogni 100.000 abitanti. Ma, avverte la stessa Commissione, queste cifre sono sicuramente sottostimate: infatti, non sono state per nulla prese in considerazione fasce di età (come quella tra i 12 e i 15 anni e quella tra i 25 e i 30 anni) in cui esiste comunque una certa diffusione di questi disturbi. Così come non è stato per nulla preso in considerazione l’elevato numero di richieste di trattamento dei soggetti obesi che presentano problemi psichici o di comportamento alimentare. Non solo: l’anoressia, dicono medici e operatori, inizia nell’adolescenza, ma negli ultimi tempi la malattia tende a manifestarsi in età sempre più giovani, fino ad interessare ragazzi alle soglie dell’adolescenza, con un’età compresa tra i dodici e tredici anni, tanto che si comincia a parlare di “anoressia infantile”. Tenuto conto di tutto ciò, concludono i ricercatori, si può ragionevolmente affermare che sono almeno mezzo milione i giovani italiani a rischio di anoressia e bulimia. Alla diffusione delle malattie non corrisponde, però, l’adeguamento della rete di assistenza. Nuovi disagi, nuove problematiche, improvvise variazioni dei criteri psichiatrici che hanno guidato fino ad ora i percorsi terapeutici dei pazienti, impongono la ricerca di soluzioni tempestive. La “Commissione di studio per l’assistenza ai pazienti affetti da anoressia e bulimia nervosa”, istituita presso il ministero della Sanità, ha elaborato un progetto per la realizzazione di una rete di strutture specializzate in grado di fronteggiare il problema che, ancora fino a qualche anno fa, non ha trovato nell’ambito del Servizio sanitario nazionale la considerazione che merita. All’elaborazione del progetto la Commissione è arrivata seguendo le tracce deboli e discontinue della rete esistente di assistenza per i disturbi del comportamento alimentare. E la mappa che ne viene fuori è disomogenea e complessa. L’Italia è divisa in tre. Una zona dove le strutture che ci sono funzionano bene, una parte dove funzionano a singhiozzo, con qualche sparuta oasi di efficienza e una zona, il Sud e le isole, dove la risposta assistenziale è inesistente e, quel che è peggio, la conoscenza del problema è confusa o quasi nulla. Dunque un divario non solo organizzativo, ma anche culturale. Il Nord supera l’esame L’attenzione al problema della riabilitazione delle persone anoressiche e bulimiche è fortemente sentita in regioni come il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, la Valle d’Aosta, L’Emilia Romagna e le province autonome di Trento e Bolzano. In questa fetta d’Italia lo stato dei servizi di assistenza raggiunge un grado elevato; in tutte queste regioni (tranne che in Valle d’Aosta, a Trento e a Bolzano, dove però i servizi esistenti sono ben organizzati), sono attivi centri specializzati per la cura dei disturbi del comportamento alimentare. In particolare, in Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna esistono 4 centri integrati con altre strutture di assistenza locali. Il Veneto, oltre a due strutture private in convenzione con il servizio sanitario nazionale, ha numerosi punti di riferimento pubblici. Lo stesso vale per Trento e Bolzano. Ma i risultati della ricerca condotta nel Centro Italia smorza già i primi entusiasmi. In Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania e Puglia la situazione, infatti, è meno rosea, poiché a un buon grado di sensibilità e conoscenza del problema non corrisponde la presenza di centri idonei di assistenza e cura sul territorio. Sono stati presentati dei progetti, ma si è ben lungi dal vederli realizzati in breve tempo. Al Sud situazione drammatica Un caso a parte può essere considerata la Puglia: a Bari infatti è presente un centro specializzato con servizio di ospedale diurno e a Lecce si è rilevato che i servizi esistenti sono sulla buona strada di una corretta gestione. Per questa parte d’Italia, dunque, si spera che i tempi lunghi della realizzazione delle strutture non blocchino ulteriormente il lavoro di sensibilizzazione che anima molti operatori e specialisti attivi, in mezzo a mille difficoltà, sul territorio. L’ultima tappa di questo percorso un po’ “zoppicante” rivela una situazione drammatica. Quella fotografata in Liguria, Sardegna, Sicilia, Calabria e Basilicata è a dir poco senza speranza, poiché alla mancanza di strutture si aggiunge una preoccupante ignoranza e una scarsa sensibilità al problema. Di fronte a “ciò che non c’è”, è difficile guardare con ottimismo al futuro. Tre situazioni diverse, dunque, con risposte differenziate e in certi casi insufficienti. Un’unica conclusione: nel nostro Paese i centri ambulatoriali e di ricovero specializzati per la cura dei disturbi del comportamento alimentare sono troppo pochi e mal distribuiti e ad oggi il livello assistenziale in Italia è molto carente. I centri specializzati presenti nel Nord, e in parte del Centro, sono nella maggior parte dei casi di origine universitaria; per il resto sono strutture inizialmente private ed entrate poi in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale. In genere i trattamenti più utilizzati sono quelli psicoterapici e psicofarmacologici. La ricerca ha inoltre rilevato che i servizi socio-assistenziali sono un punto di riferimento indispensabile per i pazienti e le loro famiglie, soprattutto in quelle regioni del Centro dove mancano strutture specializzate. Ecco cosa c’è da fare Al lavoro di indagine, la Commissione ministeriale ha fatto seguire un progetto finalizzato a migliorare e rendere uniforme in tutto il Paese la rete di assistenza. Secondo una stima teorica, questa dovrebbe essere rivolta a circa 22.000 persone con diagnosi clinica accertata e che necessitano di un trattamento specialistico. Le strutture dovrebbero essere differenziate in servizi ambulatoriali, ospedali diurni e servizi di degenza residenziale riabilitativa. Secondo gli esperti occorrerebbero 75 servizi ambulatoriali per un numero stimato di 5.000 prestazioni in un anno. Gli ospedali diurni, nei quali è prevista una degenza di 30 giorni al massimo, dovrebbero essere cinquanta su tutto il territorio per assistere circa il 20 per cento dei pazienti. Infine, per i casi più seri, (circa il 10 per cento dei 22.000 stimati), è necessario il ricovero nei servizi residenziali riabilitativi. La Commissione ne prevede una trentina, distribuiti in tutte le regioni d’Italia. Quanti anni ancora? In cima alla “piramide” assistenziale, inoltre, si troverebbe un centro regionale interdipartimentale, attivo soprattutto nella ricerca, nella formazione degli operatori (altro “nervo scoperto” del problema anoressia), nelle attività di prevenzione e nella gestione della rete assistenziale a livello delle regioni. Insomma, se il progetto della Commissione si realizzerà, sarà come veder materializzarsi un’idea che ancora oggi è utopia. Ma non è più tempo di teoria e ipotesi sul futuro. Il presente già basta a risvegliare la sensibilità sulla gravità di queste patologie, figlie del disagio moderno o, forse, di un male “ antico” che il passare del tempo trasforma in agonie lunghe e drammatiche. E quel mezzo milione di ragazzi e ragazze a rischio non possono certo permettere che la burocrazia sanitaria, dopo avere studiato per due anni il da farsi, ne impieghi altri per cominciare davvero a curarli.


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