Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Welfare & Lavoro

«Ho cercato il senso della morte di Stefano»

Dialogo con Maurizio Cartolano, regista di “148 Stefano”, documentario sulla storia del ragazzo morto di carcere

di Chiara Caprio

Centoquarantotto è il numero assegnato a Stefano Cucchi. È il numero che contraddistingue la sua morte in quel lontano 2009. Sono passati tre anni, ma la famiglia è ancora in cerca di una verità e la giustizia fa lentamente il suo corso. È però di questi giorni la notizia che “148 Stefano. Mostri dell’inerzia”, documentario sulla morte di Stefano, ha fatto capolino in prima serata sulla Tv generalista (La7 nello specifico). È talmente una notizia rara in un panorama televisivo in cui il genere documentario è relegato alla mezzanotte, che anche Aldo Grasso sul Corriere si è fermato a sottolineare la rarità e la dignità di questo progetto, introdotto da un’intervista a Ilaria, la sorella di Stefano. Maurizio Cartolano, regista e autore del documentario insieme a Giancarlo Castelli, si può forse dire soddisfatto (ha incassato anche un David per questo lavoro), ma più si parla di questo documentario, più l’amaro in bocca sale, «perché noi l’abbiamo fatto per difendere lo Stato da chi copre, dall’omertà di alcuni, perché vogliamo ancora credere che i nomi dei responsabili usciranno e le istituzioni oneste ne escano pulite» spiega a Vita.

Da dove nasce l’esigenza di lavorare a questa storia?
Il motivo principale è un forte senso di dovere civile. Io sono venuto a conoscenza di questa storia dai fatti di cronaca, dal lavoro dei giornalisti, e mi sono sentito indignato davanti a tanta inaudita follia che purtroppo coinvolge le istituzioni. Da subito si è capito che c’era un qualcosa di fortemente manipolato in questa vicenda, perché un ragazzo giovane è morto nelle mani dello Stato. Quando si vuole minimizzare una storia come questa, descrivendo Stefano Cucchi come un tossico, uno zombie, un sieropositivo, allora diventa evidente a tutti che c’è il tentativo di nascondere la verità. Ancora oggi in tribunale si vuole dimostrare che Stefano è morto per cause naturali. E questa è una follia, no?

Ma, al di là della cronaca, in questo documentario sentiamo le voci e i racconti di Ilaria, la sorella di Stefano, e di Gianni, il padre, che si apre molto. Come si è avvicinato alla famiglia Cucchi?
Non eravamo certi che la famiglia volesse partecipare a questo racconto. Non per sfiducia nei nostri confronti, ma perché raccontare ancora una volta la storia di Stefano significa soffrire. Ricordo che avevamo studiato diversi modi per avvicinarci a loro e convincerli, ma siamo rimasti stupiti perché appena abbiamo fatto la nostra proposta, la loro risposta è stata positiva su tutta la linea. E’ nata sin da subito una complicità d’intenti. Loro sanno che la verità che uscirà sul processo e su Stefano passerà inevitabilmente dall’informazione e hanno capito che un documentario poteva essere una chiave nuova e approfondita per ricostruire quanto è accaduto a Stefano.

La madre di Stefano però non compare mai nel documentario. Come mai questa assenza?
Dopo aver partecipato a eventi pubblici per oltre un anno, la mamma di Stefano si è resa conto che non se la sentiva più. E’ come se avesse improvvisamente realizzato tutta la tragicità della perdita definitiva del figlio. Ci ha seguito da vicino, quotidianamente, ma ha preferito non diventare testimone di questa storia. Non ce la faceva. Noi l’abbiamo incontrata tutti i giorni, ci siamo confrontati sempre e a lungo, ma abbiamo rispettato la sua volontà.

Questo lavoro si discosta dall’inchiesta tradizionale. O meglio, non è un’inchiesta. Perché un documentario su Stefano propone qualcosa di nuovo rispetto al giornalismo duro e puro?
I tempi del documentario consentono un’apertura diversa da parte dei protagonisti. Non si sente mai la mia voce e non ci sono domande dirette in questo lavoro. Ho lasciato di volta in volta che fossero i protagonisti a raccontare quello che in quel momento loro si sentivano di voler dire. Questo ha portato ad una libertà aggiunta, che ha permesso di far fluire i pensieri e le emozioni dei testimoni e di ricostruire questa storia così complessa.

Nella vicenda pubblica della morte di Stefano Cucchi hanno giocato un ruolo molto importante le foto scattate al suo corpo. Sono uscite su giornali e TV e hanno colpito duramente lettori e spettatori. Anche nel documentario numerosi testimoni fanno riferimento al ruolo chiave di queste foto. Ma nel tuo lavoro non compaiono mai. Perché questa scelta?
Indubbiamente la pubblicazione delle fotografie è stata la discriminante per cui la storia di Stefano non è finita del dimenticatoio. L’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, lo ripete più volte anche nel documentario. Sono foto scattate di nascosto, perché alla famiglia era stato vietato, quindi sono state un elemento trainante. Io però ho scelto di non usarle nel documentario perché non volevo aggiungere drammaticità a una storia già drammatica. Sono convinto che quel genere di fotografie, di un corpo martoriato, susciti subito una reazione forte, di sdegno, emotiva, ma poi quasi si smette di riflettere, di respirare, perché troppo focalizzati sul dramma. Io mi sono voluto concentrare più sui fatti. Non volevo far rivivere lo scempio – già vissuto – di un corpo. C’è una frase nel documentario, pronunciata dal Garante per i Diritti dei Detenuti, che spiega molto bene la mia scelta: «il sistema assorbe le emozioni e per qualche verso le accantona». Le emozioni possono essere controproducenti, quasi spingono a dimenticare. Io non volevo che venissero accantonati i fatti. E sono rimasto fedele a questi.

Nel documentario mancano le testimonianze di medici, infermieri, carabinieri e polizia carceraria. Solo alla fine si scopre che non hanno voluto partecipare.
Sarebbe fondamentale chiedere a loro il perché di questa scelta. Noi ci siamo preoccupati di chiamare la dirigenza dell’ospedale Pertini e del Regina Coeli, così come la dirigenza dell’Arma dei Carabinieri. Ma per motivi diversi non hanno voluto partecipare. Compreso l’operatore della comunità dove Stefano ha vissuto per oltre due anni. In realtà, i Carabinieri erano anche disponibili ma alle loro condizioni: volevano leggere la sceneggiatura completa – e sappiamo che in un documentario non esiste una sceneggiatura chiusa; volevano sapere tutti i passaggi pubblici del documentario, le ore, i giorni e i luoghi – che noi non potevamo sapere; volevano sapere le domande.

Il documentario si chiude con una frase del padre di Stefano, che richiama alla responsabilità personale. Cito: «Perché questa persona che ha colpito Stefano – e io so che in certe circostanze ci stanno bene due schiaffi – non chiede scusa? Non ammette semplicemente di aver esagerato?» E’ questo l’obiettivo che si è prefissato con il suo documentario? E’ quindi la richiesta di una giustizia umana e non per forza giudiziaria?
Come documentarista non posso che dire che l’obiettivo stesso del nostro lavoro è quello di raccontare una storia aggiungendo dettagli e approfondimenti ancora sconosciuti. In questo caso è chiaro che l’intento è quello di suscitare riflessioni. In fondo, non è quello che succede dentro un’inquadratura che cambia la realtà. Quello che però può cambiarla è la capacità di far riflettere su una storia e trasformare questa riflessione in un dialogo che a sua volta si trasforma in azione. Questa è una storia d’ingiustizia che se non si trasforma in cambiamento allora non serve a nulla.

Clicca qui per vedere il documentario su La7
 


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA