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I fundraiser: no alla paga a percentuale

Si chiude la sesta edizione, da record, del Festival del Fundraising, che segna una forte presa di coscienza sulla professione. E parte una campagna per dare una dignità, anche contrattuale, ai fundraiser italiani

di Mattia Schieppati

«Il fundraiser? Non può essere qualcosa che "si fa", ma è un qualcosa che "si é"». Sta tutto in queste parole Elena Zanella (blogger di Vita.it), Direttore fundraising, comunicazione e marketing della Fondazione Serena onlus, premiata come Fundraiser dell'Anno durante la cena di gala di mercoledì 15, lo spirito – si può dire pure l'orgoglio – che ha attraversato la tre giorni del Festival del Fundraising edizione 2013, la sesta, che si chiude oggi a Castrocaro. «Un'edizione da record» sottolinea con una soddisfazione che gli fa brillare gli occhi Valerio Melandri, direttore del Master in Fundraising per il non profit e gli enti pubblici dell’Università di Bologna e deus ex machina del Festival, «690 partecipanti, tanto che qui a Castrocaro quasi abbiamo fatto fatica a trovare camere per alloggiare tutti, tantissimi giovani, direi che siamo a una media intorno all'80% di trenta-trentacinquenni, e un panel di relatori e di interventi di altissimo livello, che hanno portato qui il meglio di quello che in questa professione si sta facendo in Italia, e nel mondo».

Ma se la riuscita del Festival può essere contabilizzata facilmente dai numeri, il punto di sintesi forse più interessante che esce da questa edizione è la consapevolezza – palpabile dal clima che si è respirato tra workshop e momenti di networking informale – della "massa critica" che ormai i professionisti del fundraising italiano stanno raggiungendo, e della necessità di dare ormai un confine netto e ben definito a questa professione. Che sta dimostrando, soprattutto in un periodo di crisi e contrazione delle disponibilità economiche come quello che il paese sta attraversando, di svolgere un ruolo chiave all'interno delle organizzazioni non profit, e di rappresentare una risorsa «su cui tutti devono capire l'importanza di investire, perché si tratta di un investimento che porta frutti», dice Melandri, battendo sul tasto che è da sempre il suo cavallo di battaglia.

Un riconoscimento professionale che passa anche da un «riconoscimento dignitoso», dice Luciano Zanin, presidente di Assif – l'associazione italiana dei fundraiser – «delle modalità di contrattualizzazione e di retribuzione dei fundraiser». Un passaggio molto delicato, perché sono ancora tante le onp in Italia che considerano questa figura come "aggiuntiva" rispetto allo staff di struttura, un qualcosa che sta un po' nella comunicazione, un po' nella promozione, un po' in amministrazione. E quindi non si assumono il rischio, economico, di portarsi in casa un fundraiser o uno staff dedicato al fundraising contrattuallizato con tutti i crismi. Una pratica che, secondo Zanin, «sta diffondendo una cultura errata di intendere il fundraising e se da una parte svilisce il lavoro del professionista singolo, dall’altra mina la credibilità stessa dell’intera categoria che, ancora poco conosciuta e diffusa, corre il rischio serio di essere fraintesa».

È per questo che il Festival di Castrocaro è stata l'occasione per dare grande visibilità alla campagna "0% Io non lavoro a percentuale" promossa da Assif, che stigmatizza la pratica diffusa di retribuire il fundraiser in percentuale, appunto, rispetto ai fondi raccolti. «Una modalità che non ha senso per due aspetti fondamentali», spiega Zanin, «primo perché dà una visione riduttiva di quello che è il lavoro dei fundraiser, che è un lavoro prima di tutto fatto di relazioni, di apertura paziente di contatti, di canali, di individuazione di opportunità da curare con attenzione nel tempo. Perché è un lavoro che si basa sulla fiducia, che è un concetto intangibile. Su tutti questi aspetti, che costituiscono il cuore della nostra professione, come si calcola la percentuale? Ma, soprattutto, siamo sicuri che un fundraiser, con la mannaia della percentuale sulla testa, continuerà a far bene il proprio lavoro nel senso che ho spiegato, e non tenderà piuttosto a forzare le relazioni, cercando di "incassare" poco e subito, anziché studiare strategie più lungimiranti, e quindi più redditizie per l'organizzazione?».
Ma c'è anche un secondo motivo, se vogliamo etico, per cui la logica della percentuale non regge secondo Zanin: «L'imprenditore sociale che paga il proprio fundraiser a percentuale è un cattivo imprenditore, perché non fa la prima cosa che un imprenditore deve fare: assumersi il rischio d'impresa, e non scaricarlo su un soggetto terzo».

Il dibattito insomma è aperto, costituisce una chiamata al confronto per le non profit italiane, e serve anche per entrare ancora più nel merito si quella che è la professione, e i suoi confini. Osserva infatti Andrea Caracciolo, rappresentante dei fundraiser italiani presso il consiglio direttivo dell'EFA, la European Fundraising Association, che «questa logica della percentuale fa capire che neanche all'interno del Terzo settore ancora non si è davvero capito che cosa faccia davvero il fundraiser. È un problema di terminologia: in Italia l'attività di "fundraising" si traduce ed è intesa come "raccolta fondi", ma questo è solo uno spicchio, la finalizzazione del nostro lavoro. Il verbo "to raise" ha un significato più ampio, che va – cito il dizionario – da "sensibilizzare" ad "allevare, fa crescere", fino a "educare". È in queste sfumature che sta tutta la nostra professione. Tanto che, per esempio in Uk, la nostra figura comincia a essere inquadrata, all'interno delle organizzazioni, come funzione di "development manager"».

Mentre si chiudono gli stand e le aule di Castrocaro, resta aperta questa questione, su cui ci sarà spazio per discurere prima dell'edizione 2014…
 


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