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Welfare

Le insidie della co-progettazione

Prima progettarlo e programmarlo anche insieme (Terzo settore e Pubblica amministrazione), il welfare ha bisogno di essere pensato insieme. Solo così nascono visioni e soluzioni reali ed innovative

di Marco Bollani

Non passa giorno ormai senza l’uscita di un richiamo alla co-programmazione ed alla co-progettazione. Ogni norma, ogni nuovo regolamento, ma anche ogni rapporto di ricerca o di studio sui temi del welfare e sull’attuazione delle politiche di welfare richiama con forza la necessità impellente, strategica, cogente ed anche vigente di co-programmare e co-progettare. O si co-programma e si co-progetta, o si muore. Il futuro del welfare o forse la salvezza del welfare e probabilmente la sua sopravvivenza sembrano proprio passare da lì. Le istituzioni, la pubblica amministrazione devono co-progettare il welfare. 

E da qui cominciano anche gli interrogativi ed i problemi rispetto a tre questioni cruciali. 

Prima questione.

Co-programmare e co-progettare non sono la stessa cosa e tendenzialmente uno dei due termini viene prima dell’altro. Ed è molto ricorrente la tendenza ad incorporare in automatico la co-programmazione dentro la co-progettazione. Bypassando il programmare insieme. Ad esempio, organizzando tavoli e strategie di co-progettazione senza aver chiara una strategia condivisa di programmazione di sviluppo degli stessi interventi che si immagina di progettare insieme. C’è il bando, c’è il finanziamento, bisogna co-progettare. Ma a monte di questa impellenza quali strategie, quali pensieri, quali idee siamo in grado di immaginare insieme e/o vogliamo o anche possiamo con-dividere insieme? 

Seconda Questione. 

Insieme a chi? Con chi programmare e progettare insieme? Qui l’interrogativo è apparentemente più sfumato. Ma non meno complesso e forse anche meno insidioso. Perché tutti i richiami alla co-progettazione interpellano senza esitazioni il Terzo settore. Non c’è via di scampo. Il welfare di oggi, contemporaneo, ma anche e soprattutto il welfare del domani, quello futuro, o lo “facciamo” con il Terzo settore o non si fa. E qui le insidie sono principalmente due … 

La prima riguarda il fatto che le istituzioni sono tante e ad ogni livello territoriale (locale, provinciale, regionale, nazionale) e spesso prima di integrarsi e di affrontare con il Terzo settore programmi e progetti di welfare, occorre che esse si integrino anche tra loro. Per evitare di frammentare ulteriormente i problemi invece di ri-comporli. In concreto, provando a concretizzare il ragionamento, se si organizza un tavolo di co-progettazione tra Piani di Zona e Terzo settore e poi, oppure anche contestualmente, si prevede un Tavolo di co-progettazione tra Azienda Sanitaria ed enti di Terzo settore, abbiamo istituito due diversi tavoli. Due tavoli distinti, magari anche sullo stesso tema, in cui il Terzo settore partecipa ad entrambi, mentre le istituzioni partecipano solo al loro tavolo. Con un Terzo settore che si trova in questo modo a confrontarsi con due diversi livelli istituzionali: quello sociale dei piani di zona e quello socio-sanitario con l’azienda sanitaria. La cosa interessante di questo meccanismo è che può generare anche una sorta di rovesciamento funzionale. Perché gli enti di Terzo settore che stanno sui due tavoli potranno maturare ed agire una visione più ampia e ricompositiva del problema trattato, rispetto invece ai due enti pubblici che partecipano ad un tavolo solo. E pur agendo il Terzo settore dal lato del privato, benché con finalità di interesse generale, potrebbe implicitamente essere portato ad agire con maggior incisività un’azione di governance rispetto agli enti pubblici, avendo esso in questo caso una visione più articolata che gli deriva proprio dall’esser presente sui due tavoli. Funzione di governance e di ricomposizione che però di norma costituisce ambito di esercizio e anche di responsabilità più strettamente in capo agli enti pubblici. Per dire quindi, in estrema sintesi, che l’integrazione dei processi e degli interventi e delle politiche, evocata e richiamata attraverso la co-progettazione e la co-programmazione, richiede in primis alle istituzioni un approccio di dialogo e concertazione inter-istituzionale, probabilmente ancor prima ed in un certo senso a monte, prima di agire insieme agli enti del privato sociale che afferiscono alla galassia del Terzo settore con funzioni di tutela e promozione degli interessi generali.

 

l’integrazione dei processi e degli interventi e delle politiche, evocata e richiamata attraverso la co-progettazione e la co-programmazione, richiede in primis alle istituzioni un approccio di dialogo e concertazione inter-istituzionale

La seconda insidia riguarda invece la galassia del Terzo settore che si presenta anch’essa ramificata e stratificata territorialmente a più livelli (locale, provinciale, regionale e nazionale …). Ma ancora di più si presenta disomogenea, complessa e differenziata sul piano identitario, di missione e di vocazione. Ed anche diversamente caratterizzata in termini di competenze, esperienze e presenza territoriale. Cooperative, associazioni e fondazioni non sono necessariamente la stessa cosa. Spesso agiscono localmente ma non a livello regionale. Talvolta agiscono con forza a livello nazionale ma senza esercitare forti ricadute a livello locale. 

Terza Questione. 

Come si fa ? L’insidia più significativa però che sta dentro all’attuale transizione di welfare dell’ “o si fa insieme o si muore”, riguarda l’approccio prevalente all’azione che scaturisce da questo quadro d’insieme piuttosto complesso e diciamo “fluido”. Perché a fronte di questi elementi di complessità, il rischio forte è di agire prioritariamente attraverso la domanda del “come si fa” … Se siamo tutti d’accordo che si fa insieme, allora la prima questione da affrontare è la questione del come. Come si co-progetta? Come si co-programma? E anche qui il rischio forte è quello di costruire ciascuno il proprio programma o meglio, la propria linea guida, per la co-programmazione e la co-progettazione. Di solito secondo la formula inossidabile e “weberiana” del “ciascuno per quanto di propria competenza”. E che però si scontra poi con la necessità di armonizzare i “come si fa” di tutti i singoli modelli di co-programmazione e co-progettazione. Perché, e qui forse arrivo al dunque, anche se sul piano normativo esistono già precisi riferimenti che delineano orizzonti di intervento anche molto precisi sul piano delle responsabilità e dei compiti e delle funzioni per progettare e programmare insieme, fino a definire un orizzonte anche costituzionalmente sancito di “amministrazione condivisa”, la norma, o meglio, l’insieme delle norme, sembrano non eliminare del tutto ampi margini di discrezionalità operativa. E quindi permanendo tali ambiti di discrezionalità che si fa? Normativamente si fa che ciascuno agisce solo per quanto di propria competenza. Talvolta però, più corresponsabilmente, ci si accorda per condividere un nuovo perimetro di responsabilità condivisa che serve proprio per con-dividere insieme le scelte discrezionali che sono insite nelle norme. E spesso proprio da tale condivisione emerge l’importanza il valore e il potenziale generativo dell’elemento discrezionalità. Che da vincolo diventa risorsa.    


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Per questo, molto probabilmente, se ci chiedessimo come si fa ad eliminare questi ampi margini di discrezionalità oppure a ridurre la tendenza ad agire solo ciascuno per quanto di propria competenza, forse  ricadremmo dentro l’insidia appena descritta di “incartarci” sul come e sulle regole senza provare insieme ad andare ciascuno oltre il proprio perimetro. 

E per questo credo che si possa uscire da questi impasse e da queste insidie, non tanto insistendo prima di tutto sulle regole. Sulle regole del welfare e delle sue modalità di co-progettarlo e prima ancora di programmarne gli interventi.  Si esce da questi impasse affrontando l’insidia di provare prima di tutto a re-interpretare meglio il welfare. Non da soli. Insieme. Assumendolo prima come una visione che come un insieme di prestazioni da garantire. O come un ammontare di risorse da gestire e suddividire. 

Prima di farlo, progettarlo, programmarlo anche insieme, il welfare ha bisogno di essere pensato e condiviso ed immaginato insieme. Servono luoghi contesti e azioni di intervento per ripensare insieme il welfare di oggi e di domani. Solo ripensandolo insieme nascono visioni, ipotesi di soluzioni e di confronto con i problemi che è chiamato ad affrontare. Ma serve anche une mentalità portata a pensare insieme e forse anche una nuova disposizione ad agire più motivata a definire le regole in corso d’opera che non prima di operare. 

E credo che questo ripensamento debba iniziare dalla dimensione territoriale e locale, dal fare riflessivo di chi agisce in prima linea nel fronteggiamento quotidiano dei problemi per poi ispirare ed informare i livelli di competenza e di responsabilità via via più in alto e meno vicini ai cittadini. 

Credo si tratti di un processo che deve avere il carattere dell’emergenza intesa come emersione “carsica”,  capace di ispirare e attivare processi di innovazione organizzativa che via via possano contribuire a dare forma a nuove regole per leggere insieme i problemi. Per pensare insieme le possibili soluzioni, programmare insieme gli interventi, scegliendo insieme le priorità ed i differimenti nel tempo, per poi progettare insieme, agendo infine, ciascuno allora si, per quanto di propria competenza.

Foto: StartupStockPhotos da Pixabay


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