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Migranti: il mito della “sicurezza”? Un boomerang che ci farà male

Le migrazioni sono usate costantemente come pretesto per riscrivere equilibri di potere nell’arena europea e internazionale verso obiettivi economici e politici che non sono quasi mai quelli che vengono raccontati

di Alessandra Sciurba

Il presidente della Tunisia Kais Saied stringe la mano al Primo Ministro italiano Giorgia Meloni
Il presidente della Tunisia Kais Saied stringe la mano al Primo Ministro italiano Giorgia Meloni

Seppur in tono minore rispetto ad anni come il 2018 e il 2019, il fenomeno delle migrazioni continua ad essere affrontato nel nostro Paese solo attraverso la sua strumentalizzazione propagandistica per rinsaldare un facile consenso basato su una concezione meramente difensiva della “sicurezza”, dirottando ogni malessere sociale e possibilità di conflitto verso capri espiatori a portata di mano, e promuovendo una  pericolosa percezione dei diritti come “gioco a somma zero”, come se fossero risorse esauribili e l’unico modo di tutelare i propri fosse toglierli a qualcun altro. Le migrazioni sono poi usate costantemente come pretesto per riscrivere equilibri di potere nell’arena europea e internazionale verso obiettivi economici e politici che non sono quasi mai quelli che vengono raccontati. Per queste ragioni, niente delle politiche migratorie del governo italiano funziona in modo compatibile col rispetto dei diritti e del diritto, o anche solo in maniera coerente con gli scopi dichiarati.

La costosissima esternalizzazione delle frontiere in Paesi di transito come la Libia e la Tunisia, cavallo di battaglia di Giorgia Meloni al vertice europeo di Bruxelles di questo giugno, e poi in Tunisia, comporta ad esempio la legittimazione delle milizie o dei dittatori di turno e, quindi, una ulteriore destabilizzazione di contesti già in crisi; elementi, questi, che alla fine producono l’aumento delle emigrazioni da questi Paesi, e quindi l’aumento del numero degli arrivi sulle coste italiane, che è infatti triplicato, dall’inizio dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2022. Non è un caso che la prima nazionalità di chi è entrato in Italia attraversando il Mediterraneo negli ultimi 6 mesi sia quella ivoriana: la maggior parte delle persone migranti presenti in Tunisia, da cui sono partite il maggior numero di imbarcazioni, proviene proprio dalla Costa D’Avorio.

E così, mentre la gigantesca Geo Barents di Medici senza frontiere, costretta, come tutte le Ong, a un solo salvataggio per missione, viene obbligata a navigare per 5 giorni per portare 13 naufraghi soccorsi fino a La Spezia (l’atto di bullismo istituzionale diventa ancora più chiaro quando si scopre che gli sbarcati verranno poi tutti riportati in pullman verso Sud, fino a Bari), in una sola giornata di fine giugno di persone a Lampedusa ne arrivano circa 1.200.

Sia chiaro, stiamo comunque parlando di numeri estremamente ridotti rispetto a quelli di anni come il 2006, quando con un solo “decreto flussi” entravano in Italia legalmente 550mila persone e nessuno urlava all’emergenza, o, in percentuale, rispetto agli oltre 177mila profughi provenienti dalla sola Ucraina che l’Italia ha giustamente accolto nel 2022. I numeri, purtroppo, valgono per come vengono raccontati, e questo è ancora più grave quando parliamo di esseri umani.

Chi fugge da conflitti, persecuzione e miseria, inoltre, continua a farlo anche se si trova davanti confini militarizzati in assenza di canali di ingresso legali realmente percorribili

Alessandra Sciurba

Chi fugge da conflitti, persecuzione e miseria, inoltre, continua a farlo anche se si trova davanti confini militarizzati in assenza di canali di ingresso legali realmente percorribili; semplicemente, e questo è il secondo paradosso rispetto agli scopi dichiarati dalla politica istituzionale, le reti del traffico di esseri umani ricevono di fatto l’appalto esclusivo sulla mobilità dai Sud del mondo, orientandola su rotte sempre più pericolose. Mentre le leggi repressive contro la cosiddetta immigrazione clandestina puniscono con pene elevatissime soltanto i “presunti scafisti”, – che di solito sono persone in fuga come le altre che si sono ritrovate a tenere il timone per potersi pagare la traversata, o vittime di tratta esse stesse perché obbligate a farlo, o comunque pesci piccolissimi -, i veri gestori del traffico di esseri umani agiscono in contiguità con le milizie o i governi dei Paesi di transito con cui l’Italia stringe gli accordi, quando non coincidono direttamente con loro, come nel caso di uno dei capi della cosiddetta guardia costiera libica Abdurahman al-Milad, meglio noto come Bija, sottoposto dal 2018 alle sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e indagato dalla Corte penale internazionale dell’Aja. 

Una croce sulla spiaggia di Cutro in Calabria

Guardando anche al Mediterraneo orientale, e alle responsabilità dell’intera Europa, il naufragio di Cutro, con un’imbarcazione partita da Smirne per raggiungere le coste calabresi aggirando la Grecia, è diretta conseguenza dell’accordo tra Ue e Turchia e della chiusura della rotta balcanica blindata da un sistema illegale di respingimenti di massa che rende impraticabile la via di terra anche per persone in fuga da regimi riconosciuti come liberticidi e violentissimi (si pensi a quello talebano). 1.300 è il numero sottostimato delle vittime nel Mediterraneo nei primi mesi del 2023, con responsabilità dirette di governi europei, proprio come è accaduto a Cutro e poi a largo di Pylos, che hanno scelto di far prevalere la logica poliziesca della “difesa” dei confini sugli obblighi di soccorso in mare. 

Nel frattempo, per chi alla fine, comunque riesce ad arrivare in Italia, lo svuotamento del diritto d’asilo attraverso il misconoscimento delle condizioni dei Paesi di origine, con l’inserimento nella lista dei cosiddetti “Paesi terzi sicuri” della Nigeria di Boko Haram o della Costa D’avorio in cui mutilazioni genitali femminili e matrimoni forzati interessano più di un terzo delle donne del Paese, serve solo a rendere quasi impossibile l’accesso a un esercizio effettivo del diritto d’asilo e a una forma di regolarizzazione sul territorio. Allo stesso modo, la restrizione della protezione speciale apre a prospettive di invisibilità e vulnerabilità allo sfruttamento per centinaia di donne e uomini che potrebbero invece contribuire pienamente a una società italiana che della loro inclusione avrebbe estremo bisogno, tanto è invecchiata e intristita nelle sue paure.

Illegalità, insicurezza, tratta, sfruttamento, oltre che individualismo, xenofobia, anestesia collettiva rispetto alle ingiustizie, sono quindi effetti più o meno diretti delle politiche migratorie oggi in atto.

In questo contesto, troppo poca inquietudine suscitano esternazioni come quelle di ministri che parlano di “sostituzione etnica” utilizzando un linguaggio che ci fa tornare indietro agli anni più bui della storia europea, o di una Presidente del Consiglio che attacca a gamba tesa la Corte costituzionale, per avere ripristinato, nel caso Rackete, il rispetto del diritto internazionale. E non stupisce, anche se dovrebbe farci tremare, che l’ambasciata d’Italia a Tripoli rifiuti di eseguire un ordine del Tribunale di Roma e di concedere il visto a un cittadino sudanese illegalmente respinto in Libia nel 2018, nonostante un giudice italiano abbia riconosciuto l’ingiustizia da lui subita. 


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Le politiche migratorie, e il Mediterraneo in particolare, sono il laboratorio di sperimentazione per testare il punto di rottura in cui i principi del diritto internazionale che vincolano la sovranità degli Stati al rispetto della dignità umana, e quelli del diritto costituzionale che vincolano il nostro legislatore alla tutela dei diritti fondamentali, possono essere elusi nell’indifferenza generale. Come se questo riguardasse solo “gli altri”, come se non fossero anche le fragili garanzie su cui negli ultimi decenni ci siamo abituati a fare affidamento, ad essere sempre più a rischio. 

Credit foto: Giorgia Meloni in Tunisia per firmare il Memorandum di Cartagine/Associated Press/LaPresse


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