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Cooperazione & Relazioni internazionali

Il cappio giapponese

Pena di morte.

di Daniele Scaglione

Il 7 dicembre scorso in Giappone sono state messe a morte tre persone. Il nostro Paese avrebbe dovuto protestare in modo deciso: si poteva richiamare a Roma il nostro ambasciatore per consultazioni, come si usa fare nei casi gravi – e impiccare tre persone in nome della giustizia è un fatto grave – oppure si poteva protestare con forza. Il governo italiano ha invece deciso di passare l?evento sotto silenzio, almeno pubblicamente. Un comportamento un po? strano, per un Paese che ha fatto della lotta all?uccisione di Stato un pilastro della sua politica estera. La moratoria contro la pena di morte approvata dalle Nazioni Unite nello scorso dicembre è un risultato importante e positivo, ma il rischio che si aggiunga alle tante parole che l?Onu ha disperso al vento in passato è forte.Nella bella intervista che ha rilasciato a Vita la scorsa settimana, Robert Banditer riporta le parole del procuratore generale cinese («La pena capitale dovrebbe essere eliminata, ma la gente non è pronta«) affermando che secondo lui questa è la tipica posizione di chi non crede più nella pena di morte ma non ha il coraggio di eliminarla.Ho i miei dubbi. Quando nel settembre del 1997, in rappresentanza di Amnesty International, entrai nell?ambasciata cinese a Roma, un funzionario mi rivolse più o meno le stesse parole usate dal procuratore. Nel frattempo sono passati dieci anni e la stragrande maggioranza di coloro che sono a favore della pena di morte dice sempre la stessa cosa: «Vorremmo farne a meno, ma non si può». E intanto continua ad applicarla, su vasta scala. Sui diritti umani non ci si può accontentare delle dichiarazioni di principio, siano risoluzioni delle Nazioni Unite oppure dichiarazioni di un procuratore.


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