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Welfare & Lavoro

Il cuore di Kaid batte a tempo di Rolex

Adriano Sofri racconta la storia dura e commovente di un suo compagno di cella

di Adriano Sofri

Scrivere un racconto sulla carità in galera? Ma io non scrivo racconti. E la carità, che cos?è? Forse la carità deve essere invisibile. Ci si accorge più spesso dell?assenza di carità: quella sì è visibile. Bene. Io metto insieme gli ingredienti di un racconto. Lo scriva qualcun altro, se vuole. C?è un ragazzo, è tunisino. Non è né bello né brutto: ma è così giovane. Era venuto da clandestino, si era arrangiato. Un giorno gli hanno dato del fumo da vendere: è stato arrestato quel giorno stesso. Ha un modo di fare servizievole e allegro. Si capisce che si sente fortunato di essere in Italia, benché sia in galera. Corre di qua e di là, a spazzare una cella, a fare il caffè ai detenuti notabili che giocano a carte. Lo chiamano con nomignoli improvvisati, un po? sprezzanti. Lui però li prende come una dimostrazione di benevolenza, e ne è quasi grato… Nessuno lo chiama con il suo vero nome. Il suo vero nome è Kaid, ma quando è stato arrestato ha dato un nome falso. Era l?unica istruzione che aveva ricevuto, insieme al fumo da smerciare. Se ti arrestano, di? un nome falso tanto è la prima volta. Aveva detto di chiamarsi Khaid. Qualcuno lo chiama semplicemente ?Marocco?, e a lui non piace tanto. Non ha niente contro il Marocco: solo, è tunisino. Se potesse, vorrebbe essere italiano. Gli sembra molto distinto, essere italiano. Quando sta per giocare la Nazionale italiana, e dalle celle i detenuti gridano: «Forza Italia», lui grida più forte di tutti: «Forza Italia». Lo chiamavano Marocco, ma era tunisino Gli mandano un nuovo compagno di cella. E? di mezza età, molto ben vestito – si vede che gli manca la cravatta, nonostante l?estate, solo perché in carcere la cravatta è vietata – molto distinto: ma è spaventato a morte, e singhiozza come un bambino. Il ragazzo gli si affaccenda attorno, gli toglie dalle mani il sacco col cuscino, le lenzuola e le stoviglie di plastica, lo fa sedere sullo sgabello, gli prepara un caffè sul fornellino a gas. L?altro non smette di piangere, ma almeno beve il caffè. Continua a dire: «Grazie, grazie». Il ragazzo gli fa il letto, svelto, annodando le cocche del lenzuolo perché non venga via per una settimana, fino al prossimo cambio. Vorrebbe mostrare all?uomo come si fa, anche perché è fiero della propria abilità, ma lo vede così in pena. Tanto, pensa, glielo farà lui, il letto: per quel che costa. Si vede che l?uomo non è abituato. Si vede che non è abituato a niente, ed è perduto. Il ragazzo gli mostra lo stipetto, e lo aiuta a sistemarci dentro i panni. In pratica, glieli sistema lui. Fa finta di niente, ma gli piacciono da morire le camicie. Tre camicie: una addirittura ha le asole per i gemelli, invece dei bottoni. Figurarsi se ti lasciano i gemelli in carcere. La televisione che non si spegne mai Passa il carrello col vitto della sera. E? lunedì, c?è uno spezzatino. L?uomo non ha voglia di mangiare, grazie. Il ragazzo mangia il suo spezzatino. Vede che l?uomo lo guarda, e gli offre di assaggiarne un po?. Così, per provare com?è la cucina. L?uomo prende il piatto di carta in cui il ragazzo ha versato un po? più della metà della sua porzione, e continuando a dire: «Grazie, grazie», lo mangia. Non è così male, pensa. L?uomo si sdraia sulla branda, si mette un braccio sugli occhi e piange di nuovo, ma piano. Il ragazzo rigoverna al lavandino. Si chiede se l?uomo si vergogni a usare il gabinetto comune, diviso dalle brande da un muricciolo basso. Deve dirgli qualcosa? Ma i ragazzi tunisini in questi argomenti sono pieni di pudore. Anche il ragazzo si sdraia – non c?è altro spazio, del resto – e fa a meno di accendere la televisione. Di solito la televisione nelle celle non si spegne mai: nemmeno quando i detenuti vanno al passeggio, o si buttano a dormire. E? quasi l?ora de telegiornale. Il volume delle altre celle è così alto che, pensa il ragazzo, a tenere spento si perdono solo le immagini. Soprattutto si sentono gli urli di Paolo Bonolis quando i concorrenti non indovinano la risposta. Il ragazzo va pazzo per Bonolis, trova che è un italiano davvero simpatico e distinto. Stasera, dopo il telegiornale, giocherà l?Italia. Il ragazzo si fa coraggio e grida: «Forza Italia». Qualcuno fa eco dalle altre celle. L?uomo si scuote. Si capisce che aveva smesso di piangere, e si era addormentato. «C?è l?Italia» dice il ragazzo. L?uomo ha un gesto cortese di disinteresse. Il ragazzo accende. Durante la partita l?uomo diventa più attento, si tira su a sedere, e ogni tanto fa qualche commento sul gioco. Il ragazzo ammira soprattutto Baggio, e si rammarica che non entri in campo – come quasi tutti gli italiani. L?uomo sorride con indulgenza: lui tiene per la Juventus, dice. Il ragazzo gioca bene a pallone, è bravo a scartare e a fare le finte, e non vede l?ora di mostrarlo al suo compagno di cella: forse domani, durante l?aria. Ammesso che l?uomo se la senta di andare all?aria. L?Italia vince, di poco? Di notte, il ragazzo si sveglia brevemente quando passa una conta, e sente che l?uomo dorme; per dire la verità, russa. Il ragazzo che tifava Baggio Passano giorni. L?uomo è meno abbattuto, parla più a lungo, scende perfino all?aria, un po? impaurito, ma scortato dal ragazzo che lo presenta fieramente. L?uomo continua a dire con fervore: «Grazie, grazie». Il ragazzo è felice, come se la cittadinanza italiana gli fosse arrivata all?improvviso, e in un modo quasi onorario. L?uomo piange ancora, quando riceve le lettere, e quando le scrive. L?uomo le scrive a sua moglie. «Carissima» le scrive «Non devi stare troppo in pena per me. Io mi faccio forza. Sento ora quanto possa la fede, a trasformare la sofferenza e l?umiliazione in una riscoperta dell?umanità negli altri e in me. Mi accorgo di aver vissuto per troppo tempo in modo falso, con falsi idoli, falsi amici, falsi gesti. Ho trovato più generosità e autenticità qui dentro che in tanti anni di carriera e di successi. La prima sera mi ha accolto un ragazzo marocchino (ha scritto così: per distrazione, o perché non distingue tanto fra un marocchino e un tunisino o un algerino – e in fondo che differenza fa?) discreto e gentile, e mi ha fatto un caffè. Non ho mai bevuto un caffè così buono. Non dimenticherò mai questo ragazzo, e quando l?incubo sarà finito (infatti, carissima, dovrà pur finire; e nessuna delle debolezze che posso aver avuto lo giustifica, ed erano le debolezze di tutto un sistema) farò di quel ragazzo un figlio d?adozione, e lo toglierò dal mondo di miseria e di ottusità in cui la sua nascita l?ha condannato, senza intaccare la sua gentilezza d?animo…». L?uomo scrive altre lettere così, piene di gratitudine e propositi; e la moglie dell?uomo ne è commossa, e indotta a interrogarsi anche lei sul vero valore della vita, e a ripromettersi di impegnare uno dei propri avvocati a dare un?occhiata alla situazione del ragazzo. Pensa così, ?del ragazzo?, perché anche il marito si è dimenticato di scrivere come si chiama, e lo nomina così, ?il ragazzo marocchino?. Chiacchierando, l?uomo ironizza col ragazzo sulle proprie futili abitudini, che ora gli si rivelano di colpo ridicole. L?uomo è sincero, e avrebbe regalato una camicia al ragazzo, se la taglia non fosse così palesemente eccessiva. Il ragazzo è smilzo, l?uomo corpulento. «Mi manca il mio orologio», dice l?uomo, prendendo in giro se stesso. Gliel?hanno sequestrato e messo in magazzino quando è entrato, perché il galera non sono permessi gli orologi di valore – per dire la verità, neanche gli indumenti di valore, categoria che comprende le camicie di seta. (Non è permessa neanche la cintura di un accappatoio, tanto meno a detenuti che, come l?uomo, siano sospettabili di disperazione e di tentazioni estreme. Il ragazzo gli ha prestato la sua cintura, ricavata da un vecchio lenzuolo fatto a strisce). In una cella lo riempirono di botte C?è in questo carcere, un detenuto italiano anziano, un truffatore e falsario di professione, i quelli che giocano a carte nel gruppo più autorevole. Un giorno il ragazzo l?ha sentito raccontare di aver fatto fessi i guardiani, convincendoli di avere al polso un Rolex ?taroccato? – falso. Così gliel?hanno lasciato. Lui mostra il Rolex vero, e ride di gusto della beffa. Gli altri ridono con lui, di compiacimento e di invidia. Insomma, il ragazzo non saprà mai come gli sia venuta un?idea simile. Lui in vita sua non ha mai rubato niente. E? entrato nella cella del truffatore mentre quello faceva la doccia, si è messo in tasca l?orologio, ed è corso a regalarlo all?uomo. L?uomo è sbalordito, ma il ragazzo insiste: «Prendetelo» dice «E? per voi». Gli dà del voi: non se la cava tra il voi e il lei. L?uomo gli dà del tu. Arriviamo alla fine. Il ragazzo è stato convocato in una cella e riempito di botte. «Fatti scappare una parola, e sei morto», gli hanno detto buttandolo come un fagotto nel corridoio. Ma il ragazzo non avrebbe detto niente comunque: ci tiene a mostrarsi regolare, e poi gli sembra giusto che l?abbiano pestato. Gli agenti lo portano all?isolamento, e lo picchiano un altro po?: ma poco, e senza zelo. Al ragazzo dispiace di aver perso la compagnia dell?uomo – «Come se la caverà senza di me?», si chiede – e anche di non poter vedere la prossima partita in televisione. Del resto, ora non se la sentirebbe di gridare «Forza Italia». Meglio star zitti, per un po?. La mattina dopo l?hanno impacchettato e spedito in un altro carcere, con fama di maggior durezza. L?hanno accompagnato con un rapporto che invita a misure speciali, perché è uno che usa derubare gli altri detenuti. Qui noi perdiamo le sue tracce. Infatti anche le storie che inventiamo devono rassegnarsi a perdere di vista i loro eroi, prima o poi. Chissà dov?è ora Marocco? Quanto all?uomo: è uscito di galera, agli arresti domiciliari, credo. I buoni avvocati a qualcosa servono. Hanno attenuto anche che, per ragioni di lavoro, il loro assistito possa fare uso del telefono. L?uomo passa tutto il suo tempo a telefonare. Se fosse rimasto in carcere ancora per un po?, i suoi colleghi l?avrebbero fatto fuori. Ora sì che ha imparato a conoscerli: gliela pagheranno. E? un duro, lui, e questa prova l?ha reso ancora più risoluto. Pensa spesso al ragazzo – magari senza volere, quando guarda al polso che ora è. Gli piacerebbe regalargli uno swatch: ma rischia di ricordargli quell?episodio così strano e sgradevole. Il tempo passa. L?uomo pensa di scrivere una cartolina al ragazzo, ma non sa neanche in che carcere l?abbiano mandato. Una volta, a cena, lo dice alla moglie. «Chissà dov?è, ora, il ragazzo marocchino» le dice. Della storia del Rolex, chissà perché, non le ha mai parlato. «Ah sì» dice gentile la moglie «Come si chiamava già quel ragazzo, che non mi ricordo?» Ecco dunque, non era un racconto, ma questo non è affar mio. L?ho detto che io non scrivo racconti. Era sul carcere, senz?altro. Sulla carità non so: è difficile decidere, che cos?è la carità, che preferisce essere invisibile. E? strano, perché si dovrebbe vedere quello che c?è, non quello che non c?è: ma con la carità succede così, che è più facile vederne la mancanza. Adriano Sofri:Le sue prigioni Nato a Trieste l?1 agosto 1942, Adriano Sofri trascorre l?infanzia a Taranto. Frequenta il liceo classico a Roma e la facoltà di lettere alla Normale di Pisa. Fondatore e leader di Lotta Continua, dopo lo scioglimento del movimento, nel 1976, cura ?Fine secolo?, inserto culturale di Reporter. Autore di reportage televisivi dalla Patagonia, dalla Cecenia (dove si è adoperato per la liberazione di tre cooperanti italiani) e dalla Bosnia (le sue corrispondenze da Sarajevo sono indimenticabili), ha scritto anche numerosi libri tra cui ?Le prigioni degli altri? e ?Memoria? sul caso Moro. Condannato per l?omicidio, nel 1972, del commissario Calabresi, ha sempre rifiutato di chiedere la grazia ma ha inoltrato una richiesta di revisione del processo. In merito, dopo alterne vicende, si pronunzierà, il 6 ottobre prossimo, la prima sezione penale della Corte di Cassazione.


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