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Il nuovo demone russo

di Jacopo Guerriero

 

Dice Newseek:

somiglia ad Hemingway. E, in effetti, combatte e rompe e non si piega, in attitudine di poesia sta Zahar Prilepin. Più che uno scrittore: il classico del nostro tempo. Scrive e tende i muscoli al lettore ora che la vita, economica e politica, avviluppata nelle spire della globalizzazione finanziaria, commerciale, abbandona positività dell’essere, gusto di libertà.

Prendiamola alla lontana: possibile riscrivere I Demoni nell’età della divisione delle nazioni e dei popoli, o, ancora, immaginare una letteratura come strumento di lotta? Sì, c’è chi ci prova. L’ha fatto, Prilepin. Russo, classe ’75, di professione dissidente politico, anarchista. Ex soldato delle truppe speciali, collaboratore della Novaja Gazeta di Anna Politkovskaja. Leggetelo.

Come risposte irrinunciabili sono Sank’ja e Patologie –i due oggetti narrativi pubblicati in Italia da Voland. Romanzo di formazione generazionale, il primo, dedicato a tutti coloro che, in Russia, costretti a desolazione per le follie del “primo mondo”, non rinunciano a lottare per la propria libertà, inutile ma inarresa, ancora contro classi, borghesie, nazioni, istituzioni corrotte, economie di sfruttamento; invece un affresco della guerra di Cecenia è il secondo, con il pregio della presa diretta: ex Omon, corpi speciali, Prilepin è un reduce di Grozny e conosce verità screziate, meno manichee di quelle note al pubblico dell’informazione. Comunque: egli scrive ed è come aderire a un mistero. Il sangue cola, credi, neghi, restare indifferente è impossibile.

Quanto di più lontano e unfit per le verità deboli, le grandi riduzioni –spacciate chez nous per letteratura- che dietro la parola celano la pretesa di ritrarre –ma solo poco poco- il reale. E senza sporcare, per carità. Sank’ja sta agli antipodi. Fa paura. La storia di Sacha, il protagonista –il titolo è il suo diminutivo- quella dei suoi compagni di lotta, è sempre in bilico tra negare, negare tutto quanto si trova al di fuori del libero arbitrio e la volontà di elaborare un abbandono: verso i legami che imprigionano il paese amato, la Russia –che ancora ritrovi nelle campagna perdute, nei paesi tagliati fuori da un progresso che non sembra tale, e contro la borghesissima decadenza, dalla mentalità soggiogata e prona all’eurocentrica (vana) economia politica del terzo millennio. Malattia che perseguita il paese dalla caduta del muro. Nazionalismo? Passione rosso bruna? Una vicenda di casseurs? O forse anche: nostalgia di una patria che un tempo era madre? Non mancherà –già non si è sottratto- il giornalista collettivo che lo decreterà, ma non ci credete. Questo romanzo è la narrazione di un sogno di rivoluzione che prova ancora a inverarsi. Votato alla sconfitta ma non per questo meno determinato: ci sono attentati, scontri, colpi di mano, negazioni; e sì, ci sono i morti. Sank’ja è la storia della congiura di ragazzini depauperati che provano ad organizzarsi per fare cadere un potere e un governo oscuro – padre che tortura i suoi figli. Sank’ja e i nuovi demòni bruciano fast food, si picchiano con i celerini, si ubriacano e sono molesti, sono quelli che gli inviati chiamano gli attori della rivolta tra tartine e caviale, la mappa della protesta vivente, ordiscono piani folli e irrealizzabili ma sono i soli che perseguono ancora l’intento della non – collaborazione, la disconnessione e la dissidenza per una liberazione che non può essere indolore. Ecco qualcosa che abbiamo dimenticato. Ecco qualcosa che non ci piace ricordare e su cui, invece, questo romanzo accende i fari: con idee precise, tra l’altro, di stile, di ritmo e di scrittura, rese da una traduzione di Enzo Striano che ci pare eccellente.

 

Potrà stupire allora, date le premesse, che rispetto a questo primo romanzo, Patologie –vicenda di guerra e narrazione delle imprese (poco edificanti, sempre dolorose) di un plotone di Omon di stanza a Grozny- abbia addirittura tratti più intimisti. Certo, c’è ancora il respiro della storia. Resta memorabile un affresco in esergo, l’agonia di un cane malato che perde siero dal cervello, preventiva figura di morte, di tutta la morte che accoglie in città il plotone dei soldati –tra gli altri: Infame, Cavallo, Monaco, Stornello- al centro della narrazione.

Poi, libero perché non si tiene al di fuori della mischia, libero perché si getta in ogni punto caldo della lotta, c’è Egor, che è il protagonista e vive l’esperienza del fronte in continuo flashback. Il suo io narrante partecipa di continuo una divisione che lo opprime: tra il presente e il suo passato che è l’amore per Dasa, sogno ormai inconcepibile, come anche –patria ideale in cui raggomitolarsi a sera- è il dolore per la scomparsa del padre. E si fa immagine, si fa lettera –precisa, nitida- in un avvenimento sempre unico, sempre differente, un urlo che non è mai un’epica, ma che rimanda a una poetica realmente esistenzialista: patologie sono le tensione perenni, la distanza incolmabile che sempre si pone tra la vita nuda che si può solo amare senza riserve –più che mai nell’immondezzaio della guerra- e l’assurda consequenzialità dei significati di storie, momenti, memorie, imprevisti. Tutto è troppo, per Egor, dopo la perdita dell’innocenza e alla stanza dell’infanzia non ritorna mai. E’ anche un concentrato delle contraddizioni di Prilepin, della sua vita e del suo mondo –fatto sempre e solo di estremi- questo romanzo. Non solo una storia di guerra ma il racconto dell’esperienza di vita mai appagata, mai appagabile, comunque continuamente vissuta da parte di una generazione che non può conoscere verità, che si sente comunque in tensione. Nel contesto –e l’ironia è notevole- di quella che l’autore considera il principio della terza guerra mondiale.

Finirà malissimo, come del resto ci si può aspettare. Ma, quando chiudi il libro, pensi per un po’ che non sei solo prodotto di astratte leggi della storia, c’è una lotta ancora da iniziare, una passione da inseguire.


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