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Il pollice arlecchino

Sesto appuntamento con i racconti dell’estate: Erri De Luca

di Erri De Luca

Fu nelle ferie del ?56. Arrivò in villeggiatura con il cavalletto, le tele, la tavolozza e i tubetti che spremevano il doppio concentrato dei colori. Era stata una spesa robusta e se ne vergognava, perciò era burbero. «Non si tocca», disse a noi bambini, aggiungendo un altro articolo all?elenco delle cose proibite. Con gli anni crescevano di numero come noi di altezza. Poi viene l?età in cui diminuiscono, si estinguono gli utensili proibiti. Ad accostarsi all?albero vietato si viene cacciati dal giardino, ma quando quella pianta si secca e muore, è età di lasciare comunque il recinto. A mia sorella importò poco il nuovo articolo di legge. Era estate, il mare dell?isola al mattino e la pineta nel pomeriggio non lasciavano altre tentazioni. A me piacque subito il gioco dei pennelli. Non potevo toccarli ma avevo il permesso di assistere, zitto, alle sedute di pittura. Papà disegnava a matita sulla tela, poi spremeva i colori. In due giorni faceva un quadro: paesaggi, barche, pini, il castello, non facce, non persone, non interni, ma aria illuminata. Alla fine delle ferie la tavolozza era incrostata dei più bei colori. Quei tubi sprizzavano luce, chiasso, prepotenza. Dove si posava il ricciolo lucente cominciava una zuffa con gli altri colori intorno che volevano sopraffare l?intruso, ricoprirlo. Il bianco aizzava più di tutti: gli altri se lo volevano mangiare poi restavano ammalati di lui, sbiadivano. Il nero era il più pericoloso, tutti lo evitavano, come faceva la gente col carbonaio che passava coi sacchi per le scale. Non fissavo il risultato sulla tela, ma restavo a guardare la rissa dei colori sul mercato della tavolozza, che aveva un buco per il pollice e papà aveva quel dito inzuppato nel sugo dell?arcobaleno. Alla fine delle ferie mamma non volle riportarsi in città il mucchio ingombrante delle tele. Da noi lo spazio era contato a centimetri. Papà non si credeva artista e meno ancora pensava di spuntarla con mamma. Si rassegnò a salvare due o tre tele. In città abbandonò il cavalletto per puro impedimento di spazio. Cominciò a fare acquarelli che ingombravano meno. Privo di sfondo, di spinta al largo dello sguardo, si era nella stiva dei vicoli, il sole era un passaggio di pennello sopra gli ultimi piani: perciò sfogliava i libri dei pittori e provava a ripetere i loro quadri sui fogli da disegno. Per me fu addio alla tavolozza, al pollice arlecchino: i colori erano una terra in vaschetta da rianimare con un poco d?acqua. Non c?era chiasso di sorgente, strilli di colori attaccabrighe. Non potevo mettermi alle sue spalle, non c?era niente da vedere. Era questa e così la città, un ripostiglio stretto dappertutto, un figlio non poteva stare dietro a un padre per mancanza di spazio. Il gioco largo dell?estate si era rattrappito, l?olio lucente dei colori si era spento nel fango colorato delle acquette. Papà non se ne scoraggiava, io sì, ero un bambino spesso prigioniero e resistevo agli sconforti con la prima risorsa dell?infanzia, la pazienza, una promessa fisica di crescere, di consistere poi. Una sera che aveva finito di rifare su acquerello la stanza di Van Gogh, si sentì forse felice. Mi chiamò a vederla, a confronto della riproduzione sul libro. Era umida di ultimi tocchi e rispetto al modello era più mossa, più scossa nelle linee. Ma era bella, c?era spazio in quella stanza, anche se era stretta si vedeva che c?era posto anche per un cavalletto, che non c?era. «C?è – disse – lui sta dipingendo la sua stanza dall?interno. Noi non lo vediamo, ma lui dà le spalle alla porta e sta dietro il suo cavalletto». Capii per la prima volta che in ogni quadro, si mette vicino, anzi addosso all?autore, nello stesso punto. A leggere molti libri, vedere molti quadri uno prende così spesso il posto dell?autore da diventare come uno di loro. Perciò gli chiesi: «Si diventa artisti a forza di guardare?». Fu scontento di quella domanda, mi risposte serio: «No, a forza di fare». Così per fargli piacere gli dissi che la sua stanza era venuta più pulita di quella del libro. Questo gli piacque, mi poggiò la mano sulla nuca e poi: «Ho dimenticato di dipingere la polvere». Il suo tono m?incoraggiò a chiedere: «Perché copi?». Sapevo il perché: non c?era mondo intorno, mai un centimetro di orizzonte, niente era distante, ma tutto lì era stretto e addosso. Non rispose questo. «Non copio, io imito, ripeto un disegno, cerco di rifarlo per stare vicino al pittore, per accompagnarlo. Io non so dove ha cominciato lui, magari dalla finestra, io invece dal letto, ma alla fine lo raggiungo per forza d?imitazione, per ammirazione». «Sai cosa vuol dire ammirazione?» Aprii bocca per dire di sì, che io ammiravo lui, ma non mi pareva la stessa cosa che provava lui per i pittori. «Ecco, tu segui un?altra persona non per essere lei, provando affetto per le sue pantofole, per la paglia della sua sedia…». Si confuse, non proseguì. Non capivo. Per me fare come un altro era copiare e a scuola si veniva rimproverati. Fare come un altro non potevo, era per me una recita e non ho saputo agire così. I suoi acquerelli si asciugavano sulla libreria, non li guardavo più. Li ho ritrovati in un vecchio album da disegno. Sono quindici riproduzioni da pittori impressionisti. Li ho incorniciati, stanno insieme su un muro. Formano un balcone di colori, ultimo frutto della sua vista intera e affacciata. Sono una galleria dell?ammirazione prima che il suo lume si appannasse e gli restassero pupille da acquerello, secche sul lontano. Per imitare serve amore. Chi non lo sa fare, come me, ne manca. De Luca: uno scrittore-operaio al servizio della realtà Per la serie dei racconti inediti scritti per ?Vita? sul tema ?Genitori e figli?, questa settimana tocca a Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, con un passato di militante di Lotta Continua, si è affermato negli ultimi anni come una delle voci più genuine e sofferte della narrativa italiana, nonché come forse l?unico esempio nostrano di scrittore-operaio: nonostante l?intensa attività di studio, De Luca non ha mai rinunciato al suo lavoro di operaio che gli consente, dice lui, di mantenere il contatto con la realtà. Studioso di ebraico e della Bibbia (ha tradotto l?Esodo e il libro di Giona), grande appassionato di alpinismo, editorialista di vari quotidiani fra cui il ?Corriere della Sera? e ?Avvenire?, De Luca ha pubblicato ?Non ora, non qui? (1989), ?Una nuvola come tappeto? (1991), ?Aceto, Arcobaleno? (1992), ?Fahrenheit 451? (1993), ?Prove di risposta? (1994), ?Pianoterra? (1995). Sono già stati pubblicati i racconti di Luca Doninelli, Davide Rondoni, Bruno Rinaldi, Raul Montanari, Sandro Onofri. Nei prossimi numeri sarà la volta di Chiara Zocchi, Aurelio Picca, Vincenzo Gambardella, Dario Voltolini, Tiziano Scarpa, Paola Capriolo e Enzo Fontana.


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