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Il senso di Hans Tuzzi (e di Cocteau) per il fuoco. Un’intervista all’autore di “Vanagloria”.

di Jacopo Guerriero

 

A Milano c’è uno scrittore – Adriano Bon – che si firma con il nome di un personaggio di Musil: il caposezione Hans Tuzzi. Bibliofilo e professore, giallista di culto un tempo pubblicato da Bonnard, è autore che, ogni volta, devi riqualificare, riconsiderare. Stretta per lui la gabbia del genere; a suo agio, Tuzzi, con diverse forme di narrazione – ma anche con il saggio o il saggio impuro, contaminato con il racconto.

Vanagloria – il suo ultimo titolo apparso per Bollati Boringhieri (451 pp., 17,50 euro) – sembra una scelta per la forma romanzo. C’è chi ha parlato di una narrazione accostabile al cinema di Robert Altman. A noi tornano in mente  le satire di Giovenale, quelle di rabbia, di sdegno. E’ un opus che vanta un grande numero di personaggi. Al centro: la morte sospetta di un poeta. Intorno: vite educate – quelle di professori, ricercatori, professionisti – tutte o quasi tutte in carriera e che si incastrano, si sfiorano, collidono. Gli amanti, prevedibilmente, si incontrano e si tradiscono. I buoni sono morti, nessuno è buono, anche se non c’è posta, si combatte solo per una cattedra, una pubblicazione, un esame, un pubblico riconoscimento da poco.  C’era una volta Milano la grassa, la generosa ora è solo sfondo di vite assuefatte e stravolte, nella quotidianità che sa di  degrado antropologico.

Tuzzi, Vanagloria è una scelta in favore del genere romanzo. Ancora utile a dire e raccontare del presente?

Direi che Vanagloria costituisce l’ulteriore sviluppo di un vissuto già presente nei gialli che hanno Melis protagonista, un vissuto prepotentemente affacciatosi nelle pagine di La morte segue i magi e che qui ha trovato il compimento narrativo. Là, però, proprio alcune regole del genere poliziesco rendevano forse meno evidente la ‘maniera nera’ che in Vanagloria va di pari passo con la scelta di parlare di questi anni, di questa Italia. Pur se amo molto muovermi nel terreno indefinito fra saggio e narrativa – penso, ad esempio, a Gli occhi di Rubino – ritengo che di fronte a una realtà così grottesca e paradossale, così esagerata, come quella dell’Italia oggi, il romanzo possa dire di più, meglio e più liberamente. E poi, vuol mettere il piacere di narrare?

La pensa come Zizek: siamo un paese-laboratorio, interessante per capire sviluppo e torsioni di un futuro incombente – il futuro della globalizzazione e del capitalismo progressivo?

Mi pare evidente che, nell’inedita situazione di economia globale collegata, controllata e quasi avvinta in una stretta rete, le ricorrenti crisi del capitalismo di mercato (un mercato, oggi, per lo più virtuale e finanziario) non si possono più risolvere con le “belle guerre” d’antan. Ma sono anche certo che, per capire quale potrà essere lo sviluppo o il disastro futuro, l’Italia non abbia alcun titolo ad essere un laboratorio credibile. La realtà è che la nostra struttura sociale – una nazione storicamente monoculturale, monoreligiosa e senza borghesia – ci rende più simili ai paesi sudamericani e a certi infelici paesi dell’ex impero sovietico. Non eravamo, del resto, la Bulgaria cattolica della Nato?

Insomma, è deriva.

Ormai, come diceva un tempo Flaiano a proposito della televisione, in Italia si parla per ideogrammi, nel senso che intere frasi sostituiscono una sola parola. Con un punto di vista interamente novecentesco, con il disincanto dell’età e un pessimismo storico ben stagionato registro, in Vanagloria, la frana lessicale, culturale, civile, etica e antropologica del bel paese a forma di stivale.

Milano, che fu capitale morale,  teatro d’azione delle sue opere, non fa eccezione.  In Vanagloria, foscolianamente, lei la chiama Paneropoli. E’ davvero una città in cui conviene, per continuare sulla falsa riga di Foscolo, morire o tutt’al più vegetare?

Milano vive su una fama in parte usurpata, o quanto meno esagerata, di illuminismo: di qui la scelta del nome foscoliano. Anche Pietro Verri, del resto, asseriva che a Milano o comandi o non sei nessuno. E mi chiedo se mai qualcuno degli amministratori lombardi, dagli anni di Radetzky in poi, abbia avvertito urgere il problema della bellezza: gli sventramenti privi di ogni riguardo per la storia patria iniziarono già alla metà del XIX secolo. Allora, però, accanto a malversazioni e ignoranza, si era così ingenui – positivisti? –da pensare alle generazioni future. Il pantheon dei Visconti lasciò luogo ai gabinetti pubblici (ma oggi l’ipogeo di San Giovanni in Conca è recuperato e visitabile: un segno?), però credendo in un futuro si diedero alla città i parchi del centro storico.

C’era una volta la fattura preziosa dei cieli ouvrage de Lombardie che i lettori adorano farsi raccontare da lei.

Guardi lo scempio che s’è fatto della brughiera fra Milano e Varese, colata di outlet e pollai dove mancano i trasporti pubblici: che cervello si può formare in un corpo che cresce fra tanto squallore? Del resto, le pseudoricostruzioni post-terremoto del defunto (?) governo testimoniano anche di un diffuso degrado del senso comune.

Lei è un giacobino di cultura protestante, un conservatore di sinistra.

Saba si definiva un conservatore della specie più rara, coloro che sanno di dover perdere tutto per conservare l’essenziale. Giacobino? Con gli anni dò sempre maggior peso alla capacità di maturare in noi stessi, solo così riesco a credere al riformismo. Alle rivoluzioni non ho mai creduto: le rivoluzioni dei corpi celesti portano tutto là dove e come era prima. Protestante? Confesso di ritenere le religioni rivelate l’origine di tutti i mali del mondo. Quello che noi chiamiamo paganesimo, cioè le religioni funzionali, non ha mai ucciso nessuno in nome di un dio. Figuriamoci di un Dio…

Il suo libro ruota attorno al probabile omicidio di un poeta. Lo ammetta: lei non ne vede mezzo all’orizzonte. Fa il Moravia al funerale di Pasolini?

La correggo: non l’omicidio, la morte – che ha modalità misteriose. Come del resto quella di Pasolini, archiviata con indecente superficialità dalla Giustizia (giustizia? parliamo di legge) ufficiale. Moravia parlava di tre o quattro poeti in un secolo nel mondo. E il mondo è tanto grande… I letterati italiani sono anchilosati da secoli di cortigianeria, intesa come dipendenza dalla corte: sempre un principe da blandire, l’altrieri Ippolito d’Este, ieri Mussolini e oggi il Mercato – e se non vuoi blandirlo, ci pensano gli editori a farti ravvedere.

Eccezioni, la prego, salviamoci.

Gli scrittori seri ci sono, anche da noi, come no? Potrei persino farne i nomi, a cominciare da Claudio Magris. E fanno quello che possono. Ma sono, come è giusto che sia, minoranza. E poi, via, è proprio il mondo che è cambiato: non ci sono più riserve protette, né per i dandies né per gli intellettuali impegnati. Ma una certa vivacità di dibattito non manca: basta non cercarla in televisione (un mezzo molto amato dalla componente narcisistica di Pasolini) bensì negli interstizi della rete, rifugio degli internettuali. Molta fuffa, certo, ma anche a guardare la letteratura francese fra 1930 e 1960 dal buco della serratura la biancheria intima non proprio immacolata si trova…

Proviamo a ricominciare. Il suo romanzo è bellissimo ma buio.

Sì, è vero, l’inchiostro è nero e le pagine si incupiscono sempre più verso la fine (ma diciamo anche, per chi non l’ha letto, che non mancano tratti francamente comici). Da dove ricominciare? Forse dalla serena consapevolezza che una certa idea d’umanesimo è  fi-ni-ta  e che nuove forme culturali si vanno affermando. Aiutiamole. Prendo un esempio dal passato: i dotti che in faticati esametri imitavano Virgilio facevano poesia già morta, mentre le canzoni dei chierici vaganti, da loro disprezzate, erano il futuro. Io, che sono stato editore e docente, da collezionista cerco libri e oggetti che, me ne rendo conto, interessano un novero sempre minore di persone. Forse il futuro del collezionismo sarà davvero negli album Marvel o nei mostrìcoli degli ovetti Kinder.

Hans Tuzzi un otaku?

Lo spirito vivificante resta, cambiano i suoi avatar. Il problema è un altro: che il disegno delle classi egemoni in Italia – vuoi che le rappresenti il cavalier Banana, vuoi il banchiere Passera – è smantellare la scuola dell’obbligo per ricreare una esile crosta di iperpreparati e una massa di iloti. Forse, il medioevo prossimoventuro di tutto il primo mondo. Questa deriva politica mi fa apprezzare sempre più la risposta che Cocteau diede a chi gli chiese cosa avrebbe salvato, se la sua casa fosse andata in fiamme: “Il fuoco”.

Quando tornerà il commissario Melis?

Stanno per uscire due novità: Un gatto alla finestra, breve racconto con Melis allegato al Sole24Ore del 5 agosto e Metropolis, sulla “storia segreta delle città italiane”, per Rizzoli. Per settembre avrò terminato un più corposo giallo con Melis, ambientato in Val d’Ossola nel 1986: versato nel 2010, finalmente il tè delle sorelle Chiomenti nel giardino di villa Ghirlanda è stato bevuto sino all’ultima goccia. Dopo, lavorerò a un libro di cui non voglio parlare per scaramanzia.

Cose belle?

Per fortuna, ci sono gli amici. Perché altrimenti l’unico programma possibile di questi tempi resterebbe quello enunciato dal vittoriano Edward FitzGerald nel 1859: seppellirmi nel buco più remoto e lasciarmi crescere la barba.


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