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Le altre voci degli Stati Uniti. Americani

Un anno dopo. Il fronte anti Bush L’Altra america ha continuato a battersi, a scrivere, a pensare. Viaggio tra questi testimonial di un paese che non ha un solo volto

di Riccardo Bagnato

“Incalzatrice della Storia Freno del Tempo Tu Bomba, Giocattolo dell?Universo Massima Rapinatrice di Cieli Non posso Odiarti” da “Bomb” di Gregory Corso Un colpo preciso, a un?ora precisa. A sgretolarsi davanti agli occhi del mondo, il Paese del destino: non c?è più l?America. Quella con la lettera maiuscola, quella di Hollywood, della famiglia Bush, mitologie granitiche consolidate al potere. Dietro un istante e milioni di bocche aperte, un alfabeto di macerie da imparare, di nuovo, da capo. Ripartendo dalla prima lettera per l?appunto: la A. Al posto delle due torri la solitudine di un Paese che i comunicati di solidarietà da tutto il mondo, o il patriottismo degli effetti speciali, in un anno non sono riusciti a nascondere. Battuta, beata, seguendo il battito della protesta: l?America beat, l?Altra America, quella delle macerie, dei relitti, degli emarginati, ma consapevole della propria poesia addirittura sdolcinata, ha avuto il coraggio sin dal primo giorno di dire, nel pieno delle voragini emotive: ci sono, di nuovo, da capo, sono qui. La spirale dei sospetti Quella che da anni si batte per la difesa delle minoranze etniche e sociali negli Stati Uniti, per il sostegno a politiche sociali private e che, per effetto dell?11 settembre, si è trovata di punto in bianco nel bel mezzo di una campagna a senso unico: United we stand (Restiamo uniti). Così la strada è stata in salita. L?operazione Tips, ad esempio, ?Terrorism information and prevention system? (Informazione sul terrorismo e la prevenzione del sistema), secondo cui entro l?agosto del 2002 sarebbero stati reclutati lavoratori «ben posizionati per riconoscere eventi fuori dalla norma e per riferire di attività sospette» ha creato sospetti, sfiducia e, soprattutto, aumentato, coprendoli di una patina patriottistica, pregiudizi razziali preesistenti fra i corpi sociali minoritari del Paese. Alcuni giornalisti politically uncorrect licenziati, immigrati deportati nel Paese d?origine, come denuncia in questi giorni il Christian Science Monitor [1]. A seguito di interventi legislativi a catena, partendo dal famoso Patriot Act (cfr. Vita n. 36), e in un clima di caccia alle streghe, la prima vittima è stata la libertà di informazione, la privacy, il dissenso politico, e il senso della realtà. è questo il quadro generale che si raccoglie dopo decine di interviste e colloqui con chi, dall?11 settembre 2002, ha dovuto fare i conti con quello che oggi gli esperti chiamano ? the chilling effect?, ovvero l?altra faccia del pensiero unico made in Usa. L?ariete Chomsky «Sì, è il prezzo che bisogna pagare». Questa la risposta di Madeleine Albright quando Lesley Stahl, giornalista della trasmissione 60 minutes, ha chiesto al Segretario di Stato se la morte di mezzo milione di bambini iracheni sotto i 5 anni a causa delle sanzioni giustificava le scelte dell?amministrazione Clinton in questa direzione. Era il 5 maggio 1996. «Questa affermazione, per lo più ignorata dai media americani, è invece apparsa più volte sulla stampa araba», afferma Rachel Coen, coordinatrice della comunicazione di Fair [2], osservatorio sui media con sede a New-York. «Questo non giustifica nessun atto terroristico, sia chiaro, ma come può reagire un iracheno medio a una notizia del genere?». Rachel è solo una delle attiviste, di uno fra i tanti siti o riviste ?alternativi?, impegnati a monitorare i media mainstream americani, ovvero le grandi società di informazione. Al telefono elenca i problemi a suon di numeri e ricerche effettuate sul campo. «Abbiamo contato gli editoriali apparsi su New York Times e Washington Post (in assoluto i quotidiani più venduti negli Stati Uniti) nelle due settimane successive all?attacco. Su 46 editoriali, 44 erano a favore di un intervento militare in Afghanistan e soltanto due suggerivano soluzioni alternative. Mentre qualche settimana dopo, Cnn avvertiva i propri giornalisti di «non parlare troppo delle vittime civili in Afghanistan a seguito dei bombardamenti americani, e invitava in questo modo a scegliere notizie ?adatte?. A un anno di distanza, la strategia mediatica delle grandi corporation dell?informazione sembra tuttavia registrare una certa stanchezza, perfino qualche ripensamento. è di queste settimane l?articolo di Noam Chomsky sullo stesso New York Times, in cui ancora una volta, ma questa volta dalla prima pagina del quotidiano statunitense numero uno, Chomsky condanna la linea politica del proprio Paese, «l?ostilità verso gli Stati Uniti cresce perché Washington finanzia ancora regimi dittatoriali». Ma senza guardare all?estero, e dovendo parlare di finanziamenti, «le stesse reti televisive americane Nbc e Cbs, ad esempio, sono legate a doppio filo a General Electric la prima, e Westing House la seconda, soci di maggioranza queste ultime dell?industria bellica statunitense. Quale tipo di informazione possono garantire in uno stato di guerra?», a chiederselo è Jennifer L. Pozner dell?Associazione New Yorkers Say No To War e fondatrice di Women In Media & News. Già, quale indipendenza? Il bisogno di vedersi L?Associazione New Yorkers Say No To War [3] è composta da circa 500 volontari, ed è stata fondata il giorno stesso dell?attacco alle Twin Towers. «Ci siamo trovati presso Union Square, in pieno Greenwich Village spontaneamente, e da allora ci riuniamo ogni martedì per discutere di quanto sta avvenendo e organizzare manifestazioni», dice Jennifer. L?età dei partecipanti è varia, così come eterogenea è la provenienza sociale e professionale. «Nella maggior parte dei casi c?è il bisogno di incontrarsi perché parallelamente sentiamo la necessità di disintossicarci dalla televisione, dai soliti giornali, i quali non perdono occasione nel definirci di volta in volta ?antiamericani?, ?freak?, ?hippy?, ?la vergogna dell?America?». «Crediamo», continua Jennifer, femminista poco più che ventenne, «che la guerra non sia una soluzione, e che gli Stati Uniti hanno una grande responsabilità in ciò che è successo. Bisogna riflettere su questo e, in un Paese saturato dai media, dove il cittadino medio spende tra le quattro e le sei ore al giorno guardando la televisione, dobbiamo riappropriarci della nostra vita, pian piano, educandoci a vicenda, ponendoci dei dubbi. Se invece l?America si sbarazzerà delle proprie conquiste in termini di libertà civili, butterà via il meglio di sé». Ma New Yorkers Say No To War non è la sola associazione controcorrente. Un?altra associazione è September Eleventh Families for a Peaceful Tomorrow [4], fondata dalle famiglie vittime degli attacchi aderente al network United for Peace [5] , e che questo 11 settembre lo ha passato ricordando le vittime delle due torri insieme alle vittime dei bombardamenti americani in Afghanistan. E ancora dall?altra parte del Paese, a San Francisco, è City Lights [6], la libreria fondata nel 1953 dal poeta Lawrence Ferlinghetti, a essere una meta per l?Altra America, e da qualche mese espone sulla facciata del proprio edificio la scritta «Dissent is not unamerican» (Dissentire non è antiamericano). A due passi dalla Transamerica Pyramid, sulla Columbus, nel bel mezzo del quartiere italiano North Beach, la libreria offre un appoggio per la vicina Università di Berkley, i cui studenti hanno celebrato la ricorrenza senza sventolare bandiere e ignorando l?inno nazionale, e ospita soprattutto le tante fanzine, riviste ed edizioni indipendenti che non troverebbero altrimenti un varco nel Paese più intensamente bombardato da messaggi commerciali al mondo. Maledetto Nader Per il numero del 12 settembre 2001 il NY Times ha dispiegato qualcosa come 300 cronisti, 30 fotografi della redazione e 25 fotografi freelance; ha dedicato agli attacchi al World Trade Center e al Pentagono 82.500 parole; 74 firme hanno accompagnato 67 articoli su 33 delle 96 pagine del giornale. Non è mancata l?originalità, come è accaduto con la rubrica Ritratti del dolore [7], brevi biografie delle vittime che apparivano ogni giorno sul giornale newyorkese. «Una potenza di fuoco senza precedenti», commenta Victor Navasky, editore e direttore di The Nation [8], storico settimanale fondato nel 1865, che aggiunge «il problema è quello della concentrazione dell?informazione in poche mani. In altri termini di monopolio. Un monopolio che tende a emarginare ciò che non è remunerativo, verità comprese. E che manca sempre più di obiettività». Alla domanda su cosa sia cambiato in un anno, anche in questo caso Navasky non ha dubbi. «Sono due gli elementi nuovi sul tavolo dell?amministrazione Bush e che in qualche modo rimescolano le carte. Il primo sono gli scandali finanziari, e il secondo è Saddam Hussein, il secondo a copertura del primo. Non sono ottimista. Bush è diventato presidente, ma non ha vinto le elezioni, e parallelamente il Partito Democratico è come sparito: all?ombra della linea politica repubblicana. Come dice Gore Vidal (editorialista di The Nation, ndr), gli Stati Uniti avrebbero bisogno di un grande secondo partito». E Ralph Nader? Leader dei Verdi e speranza no global alle ultime elezioni? «è responsabile della vittoria repubblicana», chiosa Navasky leggermente infastidito, «speriamo almeno che non si ripresenti alle prossime elezioni come viceversa dice di fare». L?esercito anti Bush Don Hazen è tenace, deciso, di poche parole. Ha curato il libro After 9/11: Solutions for a Saner World ma è soprattutto editore e direttore della rivista Alternet [9], uno dei portali di controinformazione più conosciuti della west coast. «I media indipendenti negli Stati Uniti» dice Hazen «hanno fornito una informazione alternativa agli eventi dell?11 settembre, ai bombardamenti dell?Afghanistan e ora all?invasione dell?Iraq. Raggiungono milioni di persone e uno dei nostri contributi, ad esempio, è la caduta dal 70% a sotto il 50 dei sostegni alla guerra nell?Iraq». Ma Hazen non è ottimista. La maggioranza, la norma, il ventre molle da cui proviene lo stesso Bush, il Sud e la maggior parte dell?America occidentale, non è San Francisco, New York e nemmeno Chicago. «In queste città», continua Hazen, «come a Boston, Seattle, Los Angeles o Philadelphia, il 60/70% di cittadini sono contro la politica di Bush». Puntando proprio il dito su questa maggioranza, Salon [10], magazine famoso per la denuncia dello scandalo Lewinsky, ha adottato una linea chiara e inequivocabile, di critica al sistema consumistico americano che, per Daniel Harris, giornalista, «ha sigillato l?incidente in un vuoto ideologicamente sterile, un?incubatrice perfetta del kitsch, che si nutre delle semplificazioni irrazionali di complessi problemi morali». E continua scrivendo: «Deridiamo l?estremismo dei terroristi disposti a morire nel nome di Allah, ma ignoriamo la dimensione religiosa del nostro stesso comportamento, che giustifichiamo non con una difesa attentamente ragionata ma con simboli venerati come il Corano e la Kaaba». E mentre il magazine ha inaugurato la rubrica Pensieri proibiti sull?11 settembre in cui pubblica le email ricevute, generalmente stanche dell?abuso di patriottismo con cui si è smerciato per un anno sulla tragedia, Heather Havrilesky parla in La vendita del 9/11 del «demone affamato della cultura pop», che spingerebbe a comprare ogni souvenir possibile e immaginabile, dall?anello raffigurante le due torri alla carta igienica con sopra la faccia di Bin Laden, per ricordare sì, ma anche per dimenticare più in fretta, accomodando il dolore nell?attività più americana: lo shopping. Kalle Lasn, fondatore e direttore di Adbusters [11], snocciola qualche cifra a ragion veduta. Adbusters infatti è un media indipendente (sito, rivista e tv) che dal 1998 sostiene l?attivismo sociale reinterpretando pubblicità, spot, e cercando così di penetrare fra i 3mila messaggi marketing che vengono scaricati ogni giorno sulla popolazione americana. Ma in un sistema in cui l?11 settembre 2001, come riporta il Washington Post, qualcuno compilò il modulo dell?ufficio brevetti americano per registrare il marchio September 11, 2001, anche il non profit non ha avuto vita facile, anzi, i fondi sono in realtà calati drasticamente. A tutta beneficenza Ami Dar, direttore esecutivo di Action Without Borders [12], con sede a New York, descrive l?anno passato come un anno di enormi sofferenze sia morali, per ovvi motivi, che economiche. «In realtà dipendiamo dal mercato, dalla volontà di donare dei cittadini. In parte queste donazioni sono andate alle grandi associazioni come la Croce Rossa, ma noi, vista la salute dell?economia americana, abbiamo avuto un calo del 20%». L?11 settembre e il non profit, un connubio delicato, elogiato nel momento del bisogno, ma a un anno di distanza criticato aspramente. Scrive sempre Daniel Harris: «Le associazioni di beneficenza devono indurre il consumatore a fare qualcosa che va contro i suoi istinti capitalistici, devono convincerlo a fare qualcosa per niente, un dilemma che le porta a utilizzare tutto l?arsenale retorico del kitsch per garantire al donatore una ricompensa spirituale». Anche per questo il Foundation Center [13] ha recentemente pubblicato un?analisi dal titolo 11 settembre : prospettive dal mondo della filantropia, ovviamente acquistabile online. L?America di domani? Una cosa è certa. Oltre a essere diventata strategica, l?informazione è di fatto un potere, e come tale negli Stati Uniti viene messa sempre più in discussione, riscoprendo così in certi casi come Media-Alliance [14],Utne Reader [15], Indymedia [16] le proprie radici. E Internet è sicuramente l?infrastruttura culturale su cui è stato possibile per molti costruire un?alternativa. L?altra America naviga, si organizza in mailing list, come nel caso di Action for Justice, not War [17], consulta i documenti presenti online, e negli anni ha consolidato i propri punti di riferimento come la Electric Frontier Foundation [18] per la tutela dei diritti in Internet o la American Civil Liberties Union [19], o Privacy International [20] che ha pubblicato da qualche giorno il nuovo rapporto sulla privacy e i diritti umani. Internet è il luogo in cui l?11 settembre un anonimo ha spedito una email invitando a mettere una candela accesa sulla finestra in serata. Poche ore e New York era illuminata da candele ovunque e lo spettacolo si è ripetuto in altre città americane e non… ma come si comporterà – quando e se – l?Altra America diventerà l?America di domani? [1] www.csmonitor.com [2] www.fair.org [3] www.nysaynotowar.org [4] www.peacefultomorrows.org [5] www.unitedforpeace.org [6] www.citylights.com [7] www.nytimes.com/pages/national/portraits/index.html [8] www.thenation.com [9] www.alternet.org [10] www.salon.com [11] www.adbusters.org [12] www.idealist.org [13] www.fdncenter.org [14] www.media-alliance.org [15] www.utne.com [16] www.indymedia.org [17] www.9-11peace.org [18] www.eff.org [19] www.aclu.org [20] www.privacyinternational.org Altri link utili: […] www.lannan.org […] www.webactive.com […] www.gregpalast.com L?altra america in libreria Oltre ovviamente a consultare il catalogo della libreria City Lights di San Francisco all?indirizzo www.citylights.com, prima, due libri per conoscere la generazione beat. Il primo è un viaggio (Fernanda Pivano, Viaggio americano, Milano, Bompiani, 2001), della più conosciuta studiosa e amica di tanti scrittori e poeti beat e non solo; il secondo è la prima traduzione italiana di una raccolta di poesie di Gregory Corso, Benzina (Gasoline), Milano, TEA,1999. Ma l?Altra America, o meglio, le altre americhe, è quella tracciata da uno dei più grandi critici letterari americani, indispensabile: Harold Bloom, La religione americana: l’avvento della nazione post-cristiana, Milano, Garzanti, 1994. Sul rapporto fra media e conflitti: Armand Mattellard, Storia della società dell?informazione, Torino, Einaudi, 2001 e Alvin e Heidi Toffler, La guerra disarmata. La sopravvivenza alle soglie del terzo millennio, Milano, Sperling&Kupfer, 1994. Mentre sull?11 settembre, fuori uscendo da ogni commemorazione: di autori vari, After 9/11: Solutions for a Saner World, San Francisco, The Independent Media Institute, 2002 (acquistabile online su www.alternet.org) e Naom Chomsky, Le ragioni di chi?, Milano, Marco Tropea Editore, 2001. Voce, quest?ultimo, di un?america radicale capace di una riflessione autocritica: ?Non c’è nessuna giustificazione possibile a crimini come quello dell’11 settembre, ma possiamo considerare gli Stati Uniti vittima innocente solo se prendiamo la strada più comoda.? Ma l’Altra America è anche quella di chi, al monopolio tecnologico dei vari Microsoft, Intel e America Online oppone la filosofia open source, progettando free software, come nel caso di Richard Stallman la cui biografia (Sam Williams, Free as in Freedom, O’Reilly & Associates, Inc., 2001) è disponibile online gratuitamente all’indirizzo http://www.oreilly.com/openbook/freedom. In corso di traduzione per Apogeonline, a cura di Bernardo Parrella.


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