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La pace modello Carlo Urbani

L'editoriale di Giuseppe Frangi all'indomani della manifestazione di sabato 20 marzo.

di Giuseppe Frangi

Ci sono tanti modi di guardare alla manifestazione di sabato 20 marzo a Roma. La più immediata è quella di puntare tutti i riflettori su quei ?facinorosi? che hanno escluso la delegazione Ds dal corteo, provocando la sacrosanta indignazione di Fassino e anche la nostra. È una lettura politica di quel fatto, accuratamente preparata nelle settimane precedenti e puntualmente avveratasi. C?è poi una lettura più meditata, che passa su alcune considerazioni meno ad effetto ma da cui chi tiene più alla realtà che al teatrino mediatico non può prescindere. Innanzitutto colpiva il numero di quelli che c?erano. Oggi quale valore, quale causa è capace di calamitare tanta gente quanto la pace? Domanda non peregrina, perché la pace non coinvolge interessi concreti, sulla pace non si giocano i bilanci familiari. Eppure la pace ?muove? ad esempio più che le pensioni, più che la difesa del posto di lavoro. Ma a questa prima osservazione meditata, ne consegue un?altra. È vero, come scrive Ettore Colombo in questo numero, che il parapiglia politico ampiamente prevedibile aveva tenuto lontani quei tantissimi cattolici che, in ordine sparso, avevano costituito la sorpresa di tanti precedenti appuntamenti arcobaleno. Ma è anche vero che chi c?era, pur privato di quel sano trasversalismo, il verbo della pace sembrava averlo assimilato sino in fondo. Bastava ascoltare le voci, anche raccolte dalle tv: praticamente nessuno che dicesse di essere lì ?contro? qualcosa. Ancora una volta, la politica (tutta la politica, compresa quella dei ?portavoce? del movimento che si capisce sempre meno di quale voce siano portatori), dimostrava una distanza siderale dalle cose e dai sentimenti reali delle persone. Insomma, una lettura meditata di questa nuova giornata per la pace, ci porta a dire che la pace non è un?utopia né una pretesa. Invece è un bene vivo: perché vive nel cuore di migliaia di persone, che la desiderano per sé, innanzitutto. La pace è un bene che ha cambiato il vissuto di tanti, in questi mesi che non sono passati invano. è giusto ricordarlo, innanzitutto a noi stessi, in questo momento in cui invece la ?grande pace? nel mondo sembra indifesa e senza prospettive. In cui la logica del terrorismo e della guerra tengono sotto scacco le nostre giornate e vorrebbero ottenebrare i cuori. Dalla nostra possiamo contare su una certezza: che la pace, quella vera, quando si è insediata nella vita di una persona difficilmente la lascia, perché la pace rende contenti, anche nelle situazioni più ostili e apparentemente più disperate. Quando vacillassimo, basterebbe alzare lo sguardo e intercettare la storia o la parola di chi di pace vive. Gli esempi, davvero, si sprecano. In questi giorni escono in contemporanea numerosi libri che ricordano Carlo Urbani, l?eroico medico italiano morto un anno fa di Sars (ne parliamo a pagina 16 in questo numero). Urbani era senz?altro una persona speciale, con una dedizione agli altri forse inimitabile. Eppure le sue lettere non ci colpiscono innanzitutto per l?eroismo delle cose raccontate, ma per quel senso di pace che dettava ogni suo gesto, anche il più coraggioso. E quel senso di pace è un senso che ancor oggi condivide con noi. Leggiamo queste sue righe. “La settimana prossima faccio un esperimento. Scompaio sei giorni e sei notti. Ho spiegato cosa volevo fare, e l?autorizzazione è arrivata immediatamente. Ora sto discutendo i dettagli con il professor Le Dinh Cong, uno dei miei personaggi-mito, viso asciutto scavato dalla responsabilità e dalla sofferenza di una vita difficile. Lui leader del programma di controllo della malaria, considerato il migliore al mondo. Lui sa capirmi, perché l?ho visto ancora capace di commuoversi e arrabbiarsi, non con la mente ma col cuore . Mi porteranno in un villaggio dimenticato, nel cuore di una di quelle zone remote che costituiscono il principale problema del governo, perché è qui che la gente muore per cose semplici, perché è qui che è quasi impossibile garantire l?accesso alla salute. Non scoprirò nulla di nuovo certo. Non apporterò nulla di essenziale ai nostri documenti, né dovrò cambiare alcun protocollo di cura dopo questa esperienza. Ma ne ho semplicemente bisogno. Voglio che ruvide carezze ricordino al mio cuore cosa sto facendo”.


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