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Civilità Cattolica: La Riforma, scommessa strategica

L’autorevole mensile dei Gesuiti scende in campo con un articolo di Francesco Occhetta: «“Meno Stato, più iniziativa sociale”. Con la riforma il Terzo Settore non potrà più vivere di rendita»

di Redazione

Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti chiede di riordinare, semplificare ed innovare una normativa frammentata ed eterogenea sul Terzo settore e appoggia la volontà politica di fondare un nuovo modo di pensare lo Stato e l’economia che influenzeranno, non solamente il contesto italiano, ma anche quello europeo.

L’obiettivo è quello di riconoscere la funzione imprenditoriale del Terzo Settore accentuando, anche sul piano fiscale, il carattere «soggettivamente non lucrativo» degli enti non profit, la revisione della disciplina sull’impresa sociale e l’introduzione di nuovi strumenti di finanza sociale.

A chiarire la differenza sostanziale che la riforma introduce tra not for profit e no profit è Alessandro Mazzullo, esperto di Diritto dell’Economia civile: «No profit equivale a dire “nessun profitto”, nessuna attività commerciale. Not for profit significa invece che l’attività svolta non è finalizzata alla massimizzazione di un profitto commerciale. Si è soliti svalutare gli enti no profit considerandoli come soggetti che non svolgono alcuna attività produttiva. Invece è più corretto definirli enti not for profit (o non profit), che non perseguono uno scopo lucrativo pur potendo svolgere attività anche lucrativa. L’accento è posto sul fine (non lucrativo) e non sull’attività (che può anche esser lucrativa, purché finalizzata ad uno scopo non lucrativo, come nel caso delle torte vendute dagli scout per autofinanziare le loro attività educative). Traslando il concetto dal campo linguistico a quello normativo, la legislazione italiana dovrebbe qualificare tali enti non in quanto no profit (ovvero non svolgenti alcuna attività commerciale se non in via residuale e marginale), ma in quanto non profit vale a dire che non redistribuiscono gli utili tra gli associati ma li destinano ad uno scopo di utilità generale».

Per i gesuiti bisogna ripartire da un dato culturale: sia lo Stato liberale, sia quello fascista, sia in parte lo stato sociale, nato con l’entrata in vigore della Costituzione, hanno ostacolato prima e marginalizzato dopo la funzione e il ruolo produttivo del non profit e dell’economia civile.

Va però attuata la revisione del titolo V della Costituzione, che include il principio di sussidiarietà orizzontale, la reale piattaforma culturale e politica dalla quale sta decollando questa riforma.

Con uno slogan Civiltà Cattolica afferma: «meno Stato, più iniziativa sociale». Con la riforma il Terzo Settore non potrà più vivere di rendita. Gli operatori sono chiamati a diventare produttivi, per finanziare i propri scopi senza snaturarne la missione sociale. È questa la vera svolta culturale da cui dipende il buon esito della riforma.

Questa riforma libererà nuove energie nella società italiana. Anzitutto attraverso il coinvolgimento al servizio civile di circa 100 mila ragazzi.

Gli stessi pensionati, considerati sempre in termini di costo, potranno diventare nuovamente «produttivi» mettendo a servizio le loro competenze per azioni sociali mentre ai giovani la politica offre uno strumento per offrire nuovi lavori sul mercato.

Anche le famiglie bisognose potranno utilizzare buoni ad hoc, emessi da società concessionarie, per usufruire di servizi di cura a categorie deboli, come bambini, anziani non autosufficienti o a persone con disabilità.

Al centro della riforma, secondo Civiltà Cattolica, è collocata un’aspirazione che sta a cuore alla dottrina sociale della Chiesa: favorire un’economia al servizio dell’uomo che superi il paradigma economico fallito dopo la crisi economico-finanziaria.

La Chiesa non chiede di superare l’idea né dell’economia di mercato né dell’azienda, ma quella di un mercato esclusivamente ripiegato sull’obiettivo del profitto a tutti i costi.

La vocazione dell’economia civile è trovare punti di equilibrio tra le esigenze dello Stato, quelle del mercato e della società civile. Riconoscere al Terzo Settore la capacità di scambiare liberamente beni o servizi sul mercato in funzione di un fine diverso dal profitto o la possibilità, per un’impresa come quella sociale, di avere un fine di utilità sociale, rientra in quella visione umana che la Caritas in veritate definisce come «civilizzazione dell’economia» (CV n. 38).


Lo spirito della riforma — che toccherà la vita degli enti non commerciali, delle organizzazioni di volontariato, delle Onlus, delle cooperative sociali delle società e associazioni sportive dilettantistiche, fino alle fondazioni lirico-sinfoniche — chiede di scommettere su un’idea umana di economia.

Anche le principali dottrine economiche — anche se a volte per utilità o mancanza di prospettive — convergono con gli ultimi due Pontefici sull’idea di bene comune da intendere non come la somma dei profitti di ciascuno (il bene totale) ma come il prodotto della condivisione di tutti coloro che partecipano all’attività economica.

Rispetto a cambiamenti così radicali e strutturali che toccano la costruzione del bene comune è dunque necessario che il legislatore sappia guardare «oltre» per costituire e interpretare un’idea nuova di società, di giustizia sociale e di economia.

Dare corpo ad una riforma che renda produttivo il Terzo Settore, crei nuovi posti di lavoro e premi l’iniziativa di quei cittadini con vocazione sociale è ormai un’urgenza che si è fatta cultura condivisa a cui tutte le forze politiche dovrebbero farsene carico.


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