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Quando il welfare si tinge di giallo. Intervista con Minna Lindgren

Un incontro con la scrittrice finlandese che il quotidiano inglese The Independent ha definito la "Agatha Christie del Nord". Il suo "Mistero a Villa del Lieto Tramonto", in uscita domani per i tipi di Sonzogno editore, è un giallo venato di humour, ma è anche una rigorosa indagine sulla crisi dei sistemi di welfare che sta per scuotere l'Europa. Una lettura appassionante e intelligente

di Marco Dotti

Nel 2009 ha ricevuto uno dei più importanti riconoscimenti in ambito giornalistico, il “Bonnier Prize” per la “Storia dell’anno”, con un racconto-inchiesta sulla morte del padre, pubblicato sul supplemento mensile Helsingin Sanomat. Scrittrice, oltre che giornalista, Minna Lindgren è nata a Helsinki nel 1963 e tra le tante cose ha avuto il merito di alzare il livello di discussione su un sistema sociale e su un Paese, la Finlandia, a torto o ragione considerato all’avanguardia nei modelli di welfare e nel rapporto tra innovazione tecnologica e integrazione sociale.
Eppure, proprio grazie al suo lavoro, qualcosa si è mosso nell’opinione pubblica dentro e fuori la Finlandia, incrinando un luogo comune che troppo spesso ha indotto anche gli osservatori più attenti a identificare, con leggerezza, il Paese che, tra il 60° e il 70° parallelo, segna l’estremità nord-orientale dell’Europa, con il paradiso di un welfare inclusivo e totale, in particolare per quanto riguarda l’assistenza agli anziani.

Anche il più dinamico dei Paesi scandinavi si trova oggi davanti al punto cieco di uno sviluppo che, a fronte di una tassazione elevatissima (siamo al 51,1% di imposta sui redditi delle persone), aveva finora assicurato una buona tenuta in termini di servizi e sicurezza sociale. Per quanto sarà ancora così? Fino a quando reggerà questo sistema? È solo questione di numeri, cifre, bilanci o c’è una visione dei legami sociali e dell’uomo che si mostra incompatibile con una vita media sempre più lunga e sempre più fragile?

L’anno scorso, per la casa editrice Teos, la ricerca di Minna Lindgren sui temi della vecchiaia e della cura è proseguita con la pubblicazione del primo romanzo di una trilogia titolato Kuolema Ehtoolehdossa, in libreria da domani per i tipi della Sonzogno editore con il titolo Mistero a Villa del Lieto Tramonto (traduzione di Irene Sorrentino, pagine 284, euro 16,50).
Mistero a Villa del Lieto Tramonto è un tagliente affresco sociale intessuto nella forma del “giallo”. Con gli occhi di tre novantenni Lindgren racconta la vita quotidiana in una casa di riposo finlandese e suscita non poche domande a tutti – esperti e no. Che cosa si nasconde dietro il modello-finlandese? È davvero un modello a cui guardare senza critica e senza dubbi? Abbiamo incontrato l’autrice, alla quale, su questi temi, abbiamo posto alcune domande.

"VECCHIO" SENZA DOGMI


Ci racconta come ha iniziato a interessarsi al mondo degli anziani? Di loro parliamo solitamente come fonte di “spesa” o, con preoccupazione, quando appaiono in coda a qualche indice statistico. Eppure, dietro quegli indici, gli anziani scompaiono proprio come “persone”, come “individui”, come vite dotate di storia, passioni, memoria…
Gli anziani mi hanno sempre interessato. Da bambina la nostra famiglia era piena di persone anziane di grande personalità, ognuna di loro era in qualche modo eccezionale e, agli occhi di una bambina, divertente. Adesso, da donna di mezza età sono dell’idea che i bambini e gli anziani siano in assoluto le persone più interessanti: in loro c’è il coraggio di essere “individui” e il più delle volte hanno buon senso dell’umorismo, quando invece le persone di mezza età si sforzano di escogitare trucchi e modi per essere tristi e normali.
La cura degli anziani e la loro posizione nella società hanno iniziato a interessarmi quando i miei genitori a oltre ottant’anni hanno avuto bisogno di aiuto e cure quotidiane. Grazie all’invalidità di guerra di mio padre siamo riusciti a metterli in una struttura di cura privata per anziani, e così per me si aprì un mondo del tutto nuovo. Gli anziani vivono in queste strutture isolati dal resto della società. È perciò facile dimenticarsi di questo crescente gruppo di persone. Sono socialmente invisibili, finché la vecchiaia non tocca la propria cerchia intima.

Oggi con qualche pudore parliamo di “vecchiaia”, ma difficilmente usiamo il termine “vecchio”. Sembra ci sia uno slittamento, anche nelle parole, rispetto a qualcosa che non consideriamo più come o stadio o età della vita, ma come una malattia che deve essere curata…
In Finlandia siamo fieri del fatto che l’aspettativa di vita delle persone sia salita fino a diventare fra le più alte al mondo. Mentre ognuno ha come obiettivo vivere il più a lungo possibile, la vecchiaia ha perso terreno in termini di considerazione. A essa ci si rapporta quotidianamente, ma così come ci si relaziona a un problema.

Degli anziani si parla come di un grande e spaventoso gregge la cui cura costringe la società a lavori sgradevoli e a ingenti spese. Il termine finlandese vanhus, “vecchio”, si usa raramente, ma io personalmente lo amo.

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Si è a lungo discusso su quale sia l’età in cui una persona diventa vecchia. Dal punto di vista medico, il confine corre da qualche parte tra gli 80 e gli 85 anni e molti settantacinquenni si offendono quando vengono trattati come anziani. Sui tram di Helsinki, ad esempio, bisogna stare molto attenti ai chi si osa gentilmente cedere il proprio posto a sedere. Il mio scritto La morte di mio padre destò una straordinaria attenzione. Per tutta la primavera del 2008 sono stata al telefono a parlare con pensionati, di diversa età, di vecchiaia, di morte e di paura di morire, che il più delle volte sembra essere paura della malattia piuttosto che della morte. Allora ho imparato che i vecchi sono coloro che si presentano comunicando la propria età (Sono Siiri Kettunen, 93 anni), e che gli anziani (i senior, chiamiamolo così) sono coloro che lo fanno comunicando il proprio lavoro (“Sono Siiri Kettunen, dattilografa in pensione”).

Quanto il giornalismo d’inchiesta e la necessaria passione per il reale hanno influenzato il suo lavoro più propriamente letterario su questo tema?
Moltissimo. Il lavoro di preparazione che ho compiuto per la trilogia è stato puramente giornalistico. Ho conosciuto anziani, ho visitato le strutture di cura per anziani e quelle per dementi e i reparti per malati cronici, ho intervistato il personale sanitario e ho familiarizzato con l’ordinamento legislativo quando ho scritto diversi articoli ampi per l’Helsingin Sanomat sulla cura degli anziani. Avevo accumulato un’incredibile quantità di storie che non si adattavano o non si arrangiavano ai media. Capii che in esse c’era una trama, quella che avevo cercato per un romanzo in tutti quegli anni. Qualcuno intelligente ha affermato che se vuoi scrivere la verità devi scrivere un romanzo. Tutti i particolari più rabbrividenti di Ehtoolehto sono tutti accaduti nella realtà, ma molti di questi sarebbero divenuti banali se fossero finiti come titoli sui quotidiani

LA SOCIETÀ DELLA DELEGA

Quella moderna è una società della delega. Delegare ai tecnici una risposta su tutto ciò che ci riguarda sembra oramai diventata una prassi globale. Vengono in mente le parole di una canzone di Laurie Anderson: “soltanto un esperto può trattare un problema, perché un esperto è colui che studia il problema. Anche se la soluzione al problema portata dall’esperto crea spesso un altro problema”. Lei ha preso invece la parola in prima persona, come giornalista e come scrittrice, toccando dal vivo una realtà sociale su cui dovremmo tutti aprire gli occhi. Si è lasciata investire dalla questione, non si è sottratta…
Credo che sia i media sia la letteratura riescano a influenzare gli atteggiamenti delle persone. Per molti la vecchiaia è un mistero, per altri una cosa spaventosa che sperano resti lontana dalla propria quotidianità. Con i miei scritti provo a far aprire gli occhi su semplici fatti della vita. La vecchiaia è parte di una vita felice, la morte per un ultraottantenne è cosa naturale, ognuno conserva la propria individualità e dignità umana anche da vecchio, e anche per gli anziani l’umorismo, l’amicizia e perfino l’amore sono importanti. Uso volentieri l’umorismo anche quando affronto questioni serie o difficili perché ridere è una buona terapia e sensibilizza l’individuo a divenire più ricettivo. La cosa migliore è quando un lettore dice di aver riso e pianto nel leggere le vicende che accadono a Ehtoolehto. Inoltre, un piccolo trionfo l’ho avuto quando gli studenti di un liceo hanno letto il mio romanzo e, subito dopo la lettura, hanno iniziato a fare volontariato in strutture di cura per anziani.

"La televisione in Danimarca è spazzatura, gli uomini finlandesi amano bere e la Svezia non è esattamente un modello di democrazia", si leggeva nel gennaio dell'anno scorso sulle pagine del “Guardian”. Eppure, non solo nelle conversazioni informali, ma anche in sedi istituzionali e di riforme, i Paesi dell’Europa del nord vengono ancora descritti nei termini di un’utopia sociale. La Finlandia è spesso stata indicata come un connubio ottimale di Welfare State e turbo capitalismo. Un supermodello capace di registrare un tasso di povertà fra i più bassi e garantire una copertura sanitaria pubblica e universale a livello di diritto di cittadinanza. Ciò nonostante, oggi, proprio il suo welfare, che si è costruito negli ultimi 25-30 anni, comincia a mostrare notevoli cedimenti sul piano, diciamo così, antropologico e generazionale. Mentre nel sud Europa guardiamo alla Finlandia come a un modello per le futuro, in Finlandia grazie anche ai suoi lavori ci si chiede se questo modello abbia ancora un futuro…
Secondo l’opinione di molti l’utopia dei paesi nordici è una realtà concreta: rappresenta un modello di Stato sociale in cui l’istruzione e la cultura sono gratuite per tutti e l’assistenza sanitaria, di alto livello, ha a lungo funzionato bene. Donne e uomini lavorano in una condizione di uguaglianza e gli asili funzionano perfettamente.

Il tenore di vita in tutti i paesi nordici è particolarmente alto, questo va detto, ma il paradosso è proprio qui: nel bel mezzo di quest’enorme sovrabbondanza non ci sono più risorse per garantire quella società del benessere le cui fondamenta sono state poste in anni di gran lunga più poveri dei nostri.


In Finlandia il settore pubblico opera continui tagli e parte del servizio sanitario sta scivolando nelle mani di logiche privatistiche. A tal proposito, ancora una volta, la cura degli anziani è l’esempio più evidente. Nel momento in cui le fondazioni private dispongono della costosa assistenza agli anziani, è impossibile verificare le spese reali delle imprese concatenate, la ragionevolezza dei costi e la qualità delle cure. Si entra in una dimensione diversa, rispetto al welfare che conoscevamo. È un problema che tocca soprattutto le generazioni che hanno lavorato alla costruzione del welfare così come oggi lo conosciamo e, magari, critichiamo.
Per la mia trilogia ho scelto come protagonista la generazione nata all’inizio degli anni Venti. Un ultranovantenne è senza dubbio un vecchio, ma la ragione ancor più importante è che proprio questa generazione avendo preso parte alla Seconda guerra mondiale ha provato la vera povertà e ha costruito il benessere di oggi. È triste vedere che, dopo che hanno costruito tutto questo, arrivato il loro turno, non ci sia più modo di assisterli come sarebbe giusto.

Gli anziani non sono più considerati soggetti attivi per il sistema, anche se hanno contribuito a crearlo. Ciò nonostante, restano passivamente produttivi, nel senso che si può estrarre altro valore anche da loro, ottenendo profitti da cure mediche, farmaci, procedure e protocoll e da tutto l’establishment di organizzazioni statali o parastatali di supporto o sostegno (che vanno dal turismo ai corsi di fitness..)… Solitamente attribuiamo questa distorsione a società individualiste, nordamericane o eccessivamente burocratiche, come nel sud Europa… In Finlandia, su scala diversa, sta accadendo lo stesso?
La generazione nata dopo la guerra è notevolmente più numerosa delle altre. La nostra società è sempre cambiata e si è adattata a loro. Ora che questa grande generazione va in pensione il business degli anziani attivi è cresciuto. Il sistema sanitario privato, diversi modelli di abitazioni per anziani ma anche il turismo, il fitness, perfino la moda e il mercato dell’intrattenimento provano ad avvantaggiarsi del fatto che improvvisamente da noi c’è un bel gruppo di settantenni alquanto benestanti con tanto tempo libero. Ciò influisce anche positivamente sugli atteggiamenti: non tutti i pensionati sono tanto “incapaci” da doverlo curare, bensì cittadini attivi e il loro potenziale, per esempio, nel volontariato è significativo. Eppure è bene ricordare che un settantenne non è nella stessa fase di vita di un novantenne.

Per quanto riguarda poi l’utilizzo dei farmaci, credo, che una certa vetta sia già stata raggiunta. In Finlandia è normale che un anziano assuma ogni giorno più di dieci medicinali con effetti sul sistema nervoso centrale. Spesso i disturbi della memoria temuti da molti o lo stato di confusione dipendono da un uso eccessivo e inutile di farmaci.

NESSUN PARADISO È IN TERRA

Lei ci ha descritto una situazione che non sembrerebbe finlandese. Da una prospettiva italiana, infatti, la Finlandia è una sorta di panacea e il sistema finlandese è indicato come la risposta a molti dei nostri problemi, soprattutto in materia di welfare. Dando un'occhiata ad alcune statistiche, l'Italia ha sicuramente molto da imparare dal vostro sistema, ma da un punto di vista legato alla dimensione umana e non statistica, legato alla “qualità degli affetti”, crede che la via finlandese al welfare sia ancora il modello a cui guardare, in tutti i suoi metodi e in tutte le sue forme?
Sarei felice se la Finlandia rappresentasse questa panacea. Credo però che in Finlandia il problema maggiore sia una questione di atteggiamenti, non tanto connesso alle congiunture economiche o al sistema sociale. I politici discutono se nella legge per la cura degli anziani si debba registrare come relazione medico-paziente uno “0.6” o uno “0.7” di infermieri per anziano. Questo non ha assolutamente nessuna importanza.

Fino a quando la cura degli anziani sarà intesa come un rapporto tra numeri, noi avremo un problema. Solo quando un numero sufficiente d’individui avrà in prima persona curato un anziano che necessita assistenza, allora i comportamenti diventeranno più umani. L’obiettivo non può essere quello di rinchiudere un vecchio in una struttura di cura quando suo figlio o suo nipote hanno bisogno o voglia di viaggiare, giocare a computer o godersi la propria vita prospera.

Qui, però, tocchiamo l’idea di famiglia. Una famiglia tanto vituperata…
In Finlandia molti hanno l’idea che nei Paesi del Mediterranei e in particolare in Italia la famiglia sia ancora un’unità forte in cui le diverse parti si prendono cura l’una dell’altra e i legami non si perdono nell’anonimato. Anche da noi molti guardano all’Italia come a un esempio. Esempio di una tradizione che in Finlandia è sparita.

Il problema sembra quindi essere quello del legame: sciolti o dissolti i legami, si cade preda di un apparato tecnico che ha come perno i numeri, non gli uomini. Spesso ci relazioniamo agli anziani come ci rapportiamo ai bambini mentre ai bambini addossiamo responsabilità da anziani. Errori, mancanze, sviste, cadute sono percepite come fastiti, segni di malattia o di cedimento. Siamo incapaci di solidarietà attiva nei confronti di chi ha con fatica costituito le nostre comunità e le strutture di sostegno che ancora tengono in piedi un’Europa in crisi…
Il confronto con i bambini è azzeccato. Anch’io ho spesso riflettuto che mondo fosse il nostro se nascessimo vecchi e morissimo bambini. La crescita demografica non sarebbe nemmeno più un grande problema! Nell’educazione dei bambini si accentua individualità, nella cura degli anziani non lo si fa affatto. Ogni nonnina è riabilitata e rallegrata sempre allo stesso modo senza prestare attenzione alla sua vita fino a quel momento e le sue preferenze personali. Mio padre era un appassionato amico della natura e spesso si aggirava nei boschi per cogliere funghi, guardare gli uccelli e fotografare le piante. Ma quando il fisiatra della struttura di cura voleva obbligarlo a fare ginnastica dinanzi allo specchio, si sentiva come un giovanotto finito dietro un banco di scuola o nell’esercito. Se qualcuno gli avesse chiesto di camminare fino alla spiaggia a vedere gli uccelli migratori, tenersi in forma sarebbe stato per lui divertente.
Dar da mangiare, vestire e lavare mio padre non mi sembrava sgradevole ma naturale, dopo aver accettato una verità, cioè che lui non era più lo stesso uomo di quando aveva cinquant’anni. A ottantacinque anni era più dolce, più ridanciano, più distratto e indifeso, ma anche estremamente dolce e grato di essere aiutato. In fin dei conti avere a che fare con gli anziani è esclusivamente questione di atteggiamento. È un modo di rapportarci non ai numeri, ma all’uomo.

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