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Caroline: una storia di tratta e misericordia

Sono le donne e le ragazze spesso non accompagnate provenienti dalla Nigeria le più vulnerabili e quelle che hanno le più alte probabilità di cadere nella rete della prostituzione. Se nel 2014 si contavano 1.450 nigeriane ufficialmente registrate nei porti di sbarco in Sicilia, nel 2016 gli arrivi hanno toccato l’apice di 11.009. Questi numeri indicano con chiarezza un business in espansione fatto sulla pelle di donne inconsapevoli in cerca di un futuro migliore

di Regina Catrambone

Il 20 luglio l’OIM ha pubblicato un rapporto che analizza il fenomeno della tratta di esseri umani sulla rotta del Mediterraneo Centrale, con particolare attenzione per le donne e le ragazze spesso non accompagnate provenienti dalla Nigeria. Sono loro infatti le più vulnerabili e quelle che hanno le più alte probabilità di cadere nella rete della prostituzione. Stando al rapporto OIM, inoltre, esistono degli indicatori cui prestare attenzione per individuare eventuali vittime di tratta: il genere (visto che sono principalmente donne); l’età compresa fra i 15 e i 24 anni; la nazionalità e la provenienza da specifiche regioni; lo stato psicofisico segnato da una forte timidezza per via delle pressioni psicologiche cui sono esposte.

Durante le missioni MOAS dal 2014 ad oggi ho ascoltato le storie di molte donne nigeriane partite con un enorme carico di sogni che a ogni tappa del viaggio venivano distrutti sotto i colpi della violenza inflitta al loro corpo e alla loro anima. Gli abusi, infatti, oltre ad essere fisici, sono anche psicologici.

Una storia mi è rimasta particolarmente impressa nella memoria.

Caroline ha 19 anni e viene dalla regione del Delta in Nigeria. Come migliaia di ragazze, è caduta ingenuamente nella rete dei trafficanti che, promettendole di continuare gli studi da infermiera e trovare un lavoro dignitoso in Europa, si sono appropriati della sua stessa vita. Un uomo dall’aria rassicurante l’ha scovata nel suo villaggio e l’ha convinta a seguirlo: da quel momento Caroline ha perso ogni diritto e la sua vita è diventata una costellazione di abusi e violenze. Ad Agadez in Niger, uno degli snodi principali insieme a Benin City per il business della schiavitù sessuale, è stata venduta insieme ad altre 30 ragazze ad un bordello locale. Dopo i suoi carcerieri l’hanno portata a Sebha in Libia, rinchiudendola in prigione insieme a 150 disperati e costringendo sua sorella a pagare il riscatto di 600 dinar libici. Acquistata la libertà di andar via da quelle quattro mura, raggiunge Tripoli dove conosce una donna del suo paese che la aiuta ad arrivare a Sabrata: da qui può tentare la traversata che è l’unica alternativa per uscire viva dalla Libia, un paese che il portavoce OIM Flavio Di Giacomo ha definito “un buco nero dal punto di vista umanitario”.

Ma da donna e da madre, non sono solo le ferite del corpo ad allarmarmi. Temo le ferite inflitte al cuore di queste donne che si ritrovano condannate a un inferno senza fine.

Regina Catrambone

Il fenomeno della tratta per fini sessuali è un aspetto che si inserisce in un contesto ben più ampio di traffico di esseri umani privati dei loro diritti fondamentali e trasformati in merce di scambio all’interno di reti criminali strutturatesi negli anni.

Le donne e le ragazze originarie della Nigeria costituiscono la percentuale più alta a confronto con altri paesi di provenienza e i loro arrivi hanno registrato una significativa escalation negli ultimi anni. Se nel 2014 si contavano 1.450 nigeriane ufficialmente registrate nei porti di sbarco in Sicilia, l’anno seguente ha registrato ben 5.600 arrivi e il 2016 ha toccato l’apice di 11.009. Questi numeri indicano con chiarezza un business in espansione fatto sulla pelle di donne inconsapevoli in cerca di un futuro migliore. Tale crescita, però, si spiega non solo dal punto di vista dei trafficanti, ma anche dei clienti che accettano la schiavitù di donne barbaramente “prostituite”, come le ha definite la giornalista Anna Pozzi che spesso si è occupata del fenomeno.

Il corpo delle vittime, la cui età diminuisce costantemente, mostra con tragica evidenza i segni degli abusi sia in termini di cicatrici che di gravidanze: moltissime affrontano il viaggio in gravidanza, alcune scoprono di essere incinte solo a seguito dei controlli medici cui vengono sottoposte dal nostro team a bordo, altre ancora stringono fra le braccia il frutto di quelle violenze, cui sperano di risparmiare la vita di stenti che hanno vissuto loro.

Ma da donna e da madre, non sono solo le ferite del corpo ad allarmarmi. Temo le ferite inflitte al cuore di queste donne che si ritrovano condannate a un inferno senza fine. Ascoltare i loro racconti mi convince sempre più che non si può continuare a ignorare queste violazioni, che relegare migliaia di donne alla condizione di schiave sessuali non ci aiuterà a costruire un mondo più giusto e solidale.

I trafficanti in Africa contano sull’ignoranza delle loro vittime e sull’impunità di cui godono, mancando un sistema per monitorare il fenomeno. Tuttavia, l’arrivo in Italia non migliora affatto la condizione delle vittime, anzi. Qui l’incubo continua e si radica nella loro quotidianità fra riti vodoo e minacce per il pagamento di un debito che molte non sapevano nemmeno di aver contratto.

Abbindolate dalla promessa di una vita dignitosa in un mondo apparentemente ricco dove poter sviluppare il proprio talento, si trovano in un incubo senza fine visto che i carcerieri sfruttano la loro condizione di clandestinità e illegalità per lucrare sul loro corpo. Come avviene per i flussi migratori in generale, anche qui la mancanza di alternative sicure e legali dovuta a un vuoto legislativo e normativo diventa la forza dei trafficanti e la condanna di migliaia di donne, spesso giovanissime e indifese. Perduti tutti i loro sogni, diventano un esercito di invisibili ai margini della nostra società che troppo spesso se ne occupa solo per questioni di decoro urbano, più che di tutela dei diritti umani. Inoltre, come denunciato dall’OIM, l’Italia non riesce a garantire la giusta protezione alle vittime della tratta: delle 11.009 donne nigeriane arrivate nel 2016 nel nostro paese, si stima che almeno l’80% sarebbe stato risucchiato dal vortice della schiavitù sessuale a fronte di circa 1.600 posti disponibili per dare protezione a chi riesce a fuggire dal marciapiede.

Oggi più che mai è necessario agire su vari fronti per sradicare un fenomeno così complesso. Innanzitutto, occorre creare delle reti di informazione nei paesi di origine che smantellino la narrativa falsa ed illusoria dei trafficanti e, insieme a progetti per lo sviluppo locale, eliminino le cause determinanti la migrazione in massa. Mentre si lavora con una prospettiva a lungo termine, dobbiamo però impegnarci a evitare che perdurino illegalità e clandestinità e attivare percorsi legali per garantire una adeguata tutela alle donne abusate e prostituite durante i viaggi della speranza. L’apertura di canali umanitari, come chiesto da MOAS, priverebbe i trafficanti della loro giovanissima merce: le donne tornerebbero a godere dei diritti fondamentali e della dignità che spettano ad ogni essere umano del pianeta. Così, finalmente, potrebbero riprendere in mano la propria vita e i propri sogni integrandosi nel paese che le accoglie e che diventerà casa loro.

Tuttavia, oltre un approccio legale che punisca chi viola i diritti umani, serve un vero e proprio cambiamento culturale: dobbiamo lavorare sull’empatia e promuovere una cultura incentrata sul rispetto dei diritti umani. Solo così smetteremo di guardare alla prostituzione in termini di decoro e degrado urbano, ma ci concentreremo sull’ingiustizia subita da ogni Caroline prostituita da esseri senza scrupoli nell’indifferenza di chi la usa a poco prezzo.

L'autrice è Co-Fondatrice e Direttrice MOAS


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