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“Territori”, perché i luoghi sono fatti da una progettualità comune

Luca Doninelli è il primo dei sette autori controcorrente che ci accompagneranno alla scoperta dei termini chiave per mettere a fuoco il senso delle vacanze. «Se il primo soggetto di un turismo responsabile sono gli abitanti, occorre una progettualità capillare affinché chi vive sul territorio impari a pensare sempre cose nuove e a non accontentarsi di quello che il passato gli ha regalato»

di Luca Doninelli

Il turismo in Italia è in crisi, e questo nonostante la nostra sia una situazione privilegiata sotto tutti gli aspetti. Tutti amano l’Italia, tutti vogliono l’Italia, tutto il mondo desidera l’Italia, eppure a quanto pare la Croazia ci precede come numero di visitatori. Eppure se chiedi a tutti gli abitanti del pianeta quale Paese vorrebbero visitare, sono sicuro che una buona metà risponderebbe “Italia”, e quasi nessuno “Croazia”.

Ora, il buon senso ci suggerisce l’idea che la gestione del territorio la faccia soprattutto chi ci vive: un bravo gestore d’albergo sa di cosa hanno bisogno i clienti, come devono essere le brioches del mattino o gli accappatoi per il bagno. Ma se l’albergatore, viceversa, si lamenta perché nel suo albergo, un tempo molto rinomato, non viene più nessuno, e si arrabbia col mondo intero e depreca il tempo presente popolato di ignoranti che non capiscono niente, be’, è tempo che questa persona cominci a farsi qualche domanda. Voglio dire che, se il primo soggetto di un turismo responsabile sono quelli che ci vivono, è anche vero che occorre una progettualità capillare affinché chi vive sul territorio impari a pensare sempre cose nuove e a non accontentarsi di quello che il passato gli ha regalato. I responsabili della gestione del territorio devono aiutare chi ci vive a non sedersi mai sul già capito, sul già fatto.

Non credo nello storytelling separato dall’azione. Io racconto un territorio facendolo, o quantomeno devo avere la consapevolezza che il mio racconto è un’azione di modificazione del territorio. Non si può raccontare la realtà pretendendo di rimanerne fuori. Un tempo si diceva che la parola è un corpo contundente. Forse non è necessario che sia contundente, basta che sia corpo. Chi racconta il territorio è chi lo fa, ed è sul fare che occorre concentrarsi, perché può diventare anch’esso un luogo comune (lo abbiamo già visto). “Chi fa, falla” dice il proverbio, e bisognerebbe pensarci quantomento per mantenere uno sguardo ironico ed evitare la retorica del “fare”.

La parola “gestione” può essere pericolosa perché tende a dare troppa importanza ai progetti, alle reti, alle sinergie, che sono tutte cose importanti ma che possono produrre un’eterogenesi dei ni: rancore, malcontento, rabbia. Potremmo dire che non c’è popolazione di un territorio senza una progettualità inerente ad esso, ma nemmeno progetti senza le persone concrete a cui si rivolgono, in dialogo. Abbiamo trascorso decenni in cui parti di una città venivano modi cate in un u cio, con una piantina e un pennarello.

La gestione va distinta dall’amministrazione, che esiste dalla creazione del mondo. Tutto deve essere amministrato, dall’economia familiare ai talenti personali. Ciò che chiediamo a un bravo amministratore è che faccia uso del buon senso e che voglia bene a ciò che amministra, evitando il più possibile di farsi guidare dall’ideologia, che contiene sempre una buona parte di astrattezza e quindi di violenza – perché la violenza nasce sempre da un pensiero astratto (nel senso peggiore della parola). Non è che gestire e amministrare siano due cose molto diverse: mi pare tuttavia che la gestione sia una messa a tema di elementi che appartengono alla prassi amministrativa. Per esempio, è evidente che un buon amministratore si ponga il problema dell’acqua potabile in un territorio di forte inurbamento, e che questo appartiene a quel tema più vasto che è il benessere di una popolazione che continua a cambiare, e le cui esigenze cambiano. Quando però parliamo di gestione non intendiamo più soltanto la preoccupazione per un futuro sempre incerto, che un amministratore deve avere: parliamo anche di chi piani ca la vita futura, di chi è costretto a chiedersi come sarà questa vita, chi vivrà su questo territorio, e quindi fa dei masterplan, dei rendering ecc. Qui comincia il racconto, e questo racconto incrocia la rotta della gente, crea aspettative, sogni, delusioni, speranza, rancore.

I territori più “raccontati” sono quelli più ricchi di sollecitazioni. Milano, per esempio, gode di una notevole letteratura perché non è una città univoca, mette in atto molti progetti e molti altri li propone, e quindi presenta molti punti di vista da cui guardare le stesse cose. Stefano Boeri dice che è una città “duale”, e direi che l’espressione è azzeccata. Per quarant’anni Milano è stata una città senza progetti e, quindi, senza racconti. La progettualità è retroattiva: non solo perché si occupa di riconvertire vecchie aree, ma perché guarda con occhi nuovi il passato: per esempio tutta l’architettura milanese del XX secolo (compreso il periodo fascista) sta recuperando la considerazione che merita. Diffdo, invece, di quelle città dove il racconto, in mancanza di una vera progettualità, si appoggia sulla retorica della “gente”, alimentando pregiudizi positivi o negativi. Detesto la “romanità” e la “napoletanità”, e considero Saviano alla stessa stregua di Mario Merola, di De Crescenzo o di Apicella. Se voglio capire qualcosa di Napoli devo tornare a De Filippo e a Viviani, sempre attenti non alla “napoletanità” ma ai drammi individuali, che si scatenano dentro un certo ambiente umano.


Testo raccolto da Marco Dotti


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