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Smart Working? Con il Coronavirus è raddoppiato

Dopo il primo decreto del 23 febbraio per contrastare l'epidemia di Coronavirus, il numero dei lavoratori agili in Italia ha superato il milione. E il trend è in continua crescita. Arianna Visentini, co-autrice del libro “Smart Working: mai più senza” spiega perché lo smart working è una pratica da mantenere anche quando saranno passati i giorni dell’emergenza

di Redazione

Dopo il primo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dello scorso 23 febbraio 2020 per contrastare l'epidemia di Coronavirus il numero dei lavoratori agili in Italia è raddoppiato superando il milione. E il trend è in continua crescita. Il Governo è intervenuto per rendere più immediato il ricorso al lavoro agile. Il Decreto consente infatti in via straordinaria, l'attivazione dello smart working anche in assenza dell'accordo individuale tra le parti. Stando ai dati del Ministero del Lavoro nelle ultime settimane sarebbero oltre 554.754 i lavoratori che sono stati mandati a lavorare da casa.

Ma anche prima che in Italia esplodesse l'epidemia erano 570mila i lavoratori dipendenti che godevano di flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro. I dati della ricerca dell'Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, descrivono infatti una crescita del 20% nel 2019 rispetto al 2018. E un dipendente su tre si sente pienamente coinvolto nella realtà in cui opera e ne condivide valori, obiettivi e priorità. Questo dato ci porta ad una riflessione interessante: in Italia lo smart working cresceva piano ma piaceva sempre di più. Ma oggi non è più una scelta: lo smart working non è più un privilegio ma un obbligo, ovviamente laddove la pratica sia possibile.

Alla fine dell'emergenza saremo in grado di mettere a sistema il più grande esperimento di lavoro agile mai verificatosi in Italia? Secondo molti studiosi, lo smart woking, da pratica eccezionale deve diventare una prassi.

«Dobbiamo capire», dice Arianna Visentini, Ph.D. in Relazioni di Lavoro, che insieme a Stefania Cazzarolli ha scritto il libro “Smart Working: mai più senza” edito da Franco Angeli nell’ottobre 2019, «non è importante “dove sei” ma “se ci sei”. Le tecnologie ci consentono di svolgere dei compiti che fino a pochi anni fa potevamo fare solo dall'ufficio. Ora possiamo lavorare, mandare mail, scrivere progetti, stendere relazioni, fare meeting attraverso i nostri device. Non è più importante dove siamo fisicamente ma se siamo "connessi"».

Ma, a prescindere dall'emergenza, a due anni dalla legge 81/2017 sulle "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato" a che punto siamo? Sempre stando ai dati dell’osservatorio del Politecnico di Milano nel 2019 la percentuale di grandi imprese che ha avviato al suo interno progetti di Smart Working è del 58%, in lieve crescita rispetto al 56% del 2018. A queste percentuali va aggiunto un 7% di imprese che ha già attivato iniziative informali e un 5% che prevede di farlo nei prossimi dodici mesi. Del restante 30%, il 22% dichiara probabile l’introduzione futura e soltanto l’8% non sa se lo introdurrà o non manifesta alcun interesse.

«Le imprese», continua Visentini, «che organizzano il lavoro agile sono quelle che solitamente hanno un responsabile del personale che non ha solo competenze amministrative ma anche di gestione delle persone, della loro motivazione, produttività, orientamento agli obiettivi. Sono prevalentemente aziende medio-grandi attente alle innovazioni e al benessere dei dipendenti, interessate ad avere le risorse migliori sul mercato, ad attrarle e trattenerle. Non è detto che le piccole aziende non lo facciano, spesso prevedono giorni di lavoro in smart working, ma questo accordo non viene regolato da un contratto scritto».

Anche tra le piccole e medie imprese si registra però un aumento della diffusione dello smart working: i progetti strutturati passano dall’8% del 2018 al 12% nel 2019, quelli informali dal 16% al 18%. E la Pubblica Amministrazione? L'emergenza COVID-19 ha incentivato lo smart working per questo settore che prima, invece, lo sfruttava in minima parte (12%).

Servono strumenti di valutazione nuovi, che non si basino solo sulla presenza fisica

Arianna Visentini, co-autrice di “Smart Working: mai più senza”

Ma attenzione a non considerare lo smart working solo come uno strumento di conciliazione tra la vita privata e il lavoro. I benefici, infatti, sono tanti e vari. «Per le persone», spiega Visentini, «parliamo di risparmi di tempo (90 minuti al giorno risparmiati in media), risparmi di denaro (tra i 25-30 euro al giorno in pre-scuola, post scuola, baby sitter, pasti, viaggio, lavanderia, gastronomia, manutenzione auto), ma anche un miglioramento della qualità della vita, della salute, del benessere personale. Inoltre le aziende razionalizzano l'utilizzo degli spazi ufficio che diventano più collaborativi ed economici, risparmiano in rimborsi, trasferte e pasti. Le persone riducono i giorni di assenza e il ricorso ai permessi lavorando una parte del tempo risparmiato. Anche l'ambiente ne guadagna in salute. Ciascuno di noi, con la CO2 non emessa, è come se piantasse 18 alberi all'anno facendo 3,5 giorni di smart working al mese».

Lavorare “smart” non significa lavorare meno e peggio: «Fiducia, responsabilità, collaborazione, obiettivi, libertà», sottolinea Visentini, «non sono aspetti banali. Per lavorare in smart working servono competenze ed esercizio. Siamo stati abituati a lavorare per inerzia, arrivando in ufficio in attesa supina di istruzioni. Oggi invece siamo chiamati tutti a individuare il valore aggiunto del nostro lavoro, a darci obiettivi, ma anche a saper gestire in autonomia tempo e strumenti di lavoro. Chi coordina altre persone, deve invece imparare a dare spazio, a dare fiducia e dotarsi di strumenti di valutazione nuovi, che non si basino solo sulla presenza fisica»…


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