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C’era una volta l’America cristiana bianca

Il recente assalto a Capitol Hill ha riportato alla ribalta il tema del sovranismo e del suo intreccio con la religione. "Dio? In fondo a destra", libro scritto dal giornalista Iacopo Scaramuzzi e pubblicato da EMI Editrice Missionaria Italiana, aiuta a capire il come e i perché del fenomeno

di Iacopo Scaramuzzi

ll cristianesimo, si sa, irrora da sempre la storia politica degli Stati Uniti, dai padri pellegrini alla guerra civile, dal «vangelo sociale» alla nascita del fondamentalismo. In God we Trust è il motto nazionale, la canzone patriottica più famosa recita «God bless America».

Dalla metà del Novecento, poi, la christian right ha aumentato la sua influenza, gli stati meridionali della Bible Belt hanno determinato le elezioni, il partito repubblicano (Gop: «Grand Old Party») si è stagliato come il God’s Party, il partito di Dio. Il neoconservatorismo egemone con Ronald Reagan (1981-89) e George W. Bush (2001-09) ha avuto forti venature religiose. Poi, a un certo punto, l’era dell’America cristiana bianca è finita.

I flussi migratori dal Sudamerica, i mutati tassi di natalità e il calo della pratica religiosa hanno trasformato il panorama sociale. Il 1993 è stato l’ultimo anno in cui i «Wasp» (White Anglo-Saxon Protestant) sono stati maggioranza nel paese. Oggi i cristiani bianchi, protestanti e cattolici insieme, sono ben al di sotto della metà della popolazione.

L’elezione del primo presidente afroamericano, Barack Obama, in carica dal 2009, e la sentenza della Corte suprema che ha riconosciuto i matrimoni tra persone dello stesso sesso (2015) hanno caricato nella destra cristiana una rabbia diffusa. La crisi economica mondiale, esplosa a Wall Street, ha fatto da detonatore.

Secondo Robert Jones, autore del saggio The End of White Christian America, le controversie più surriscaldate che hanno agitato gli Stati Uniti degli ultimi anni – la «politica della nostalgia» bianca seguita all’ascesa di Obama, le polemiche apocalittiche sul matrimonio gay e la libertà religiosa, il profondo «disaccordo» tra bianchi e neri sul sistema giudiziario – vanno comprese nel quadro delle «ansie che i cristiani bianchi provano mentre il paesaggio etnico, religioso e culturale è cambiato intorno a loro». Hanno sostenuto dapprima il tea party, il movimento antistatalista e antitasse emerso nel 2009, poi hanno votato in massa Donald Trump nel 2016, considerato «l’ultima chance» di «invertire la tendenza del cambiamento culturale ed economico» del loro paese.

E, certo, l’inquilino della Casa Bianca è pluridivorziato, è probabilmente il presidente più immorale della storia degli Stati Uniti, non sa citare correttamente neanche mezzo versetto della Bibbia ed è arrivato a dire che non è interessato al perdono di Dio perché non ha di che scusarsi. Ma dalle nomine alla Corte suprema al blocco dell’immigrazione dai paesi musulmani, dal divieto di transgender nell’esercito al taglio ai fondi per l’interruzione di gravidanza, ha realizzato l’agenda evangelicale. A gennaio del 2020 è il primo presidente che partecipa alla March of life, la manifestazione contro l’aborto che ogni anno raduna a Washington militanti pro life da tutto il paese. Per dirla con un suo sostenitore disincantato, «nessuno è realmente interessato alla personalità del guerriero, la gente vuole solo che vinca la guerra».

Guerra, è il concetto chiave. Col passare degli anni, quasi impercettibilmente, le tranquille famiglie conservatrici statunitensi hanno maturato la percezione di essere «in guerra con la più ampia cultura americana», dove «forze oscure tentavano costantemente di separarle dalla volontà di Dio».

La culture war, la guerra culturale contro i matrimoni gay o l’aborto, ha preso sempre più spazio nella pastorale dei vescovi cattolici o nelle trasmissioni dei telepredicatori evangelici. Non casualmente La Civiltà Cattolica, quindicinale dei gesuiti molto vicino a papa Francesco, ha messo in guardia da un «ecumenismo dell’odio» – quasi un jihadismo cristiano – che unisce le frange più tradizionaliste del cattolicesimo e del protestantesimo. Un «nuovo integralismo medievalista» è comparso per scalzare la vecchia scuola neoconservatrice e conquistare la «supremazia all’interno del cattolicesimo americano conservatore».

Quando c’è la guerra succedono cose strane. Le posizioni si radicalizzano, gli estremi sono estremisti, emergono istinti animali e spuntano fantasmi. Se negli anni di Reagan il nemico era russo, e negli anni di Bush figlio il nemico era musulmano, adesso il nemico è dappertutto: è russo è musulmano è cinese è messicano è l’Onu è l’Unione europea sono le élites è la globalizzazione. Il nazionalismo produce tipi umani a dir poco singolari: suprematisti bianchi nostalgici del Ku Klux Klan, vigilantes che pattugliano armati i confini col Messico, «survivalisti» che accumulano alimenti e vettovaglie in vista della fine del mondo.

Espressioni di un sentimento al contempo «difensivo e aggressivo», naturalmente religioso: «quando la nazione è un dono di Dio, difenderla diventa un dovere sacro. La gente deve combattere per proteggere la nazione così come l’eletto deve combattere per vincere la battaglia dinanzi al giudizio di Dio. Il che significa controllare i confini ed espellere coloro che non sono conformi alla propria definizione di “vero” americano».

Non si invoca più Dio perché benedica l’America trionfante, ma perché la difenda dal declino.

Dio? In fondo a destra, di cui queste righe sono un estratto, è disponibile all’interno del sito web di EMI Editrice Missionaria Italiana.


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