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Cooperazione & Relazioni internazionali

Per Francesco, il viaggio dei viaggi

Il papa parte per l’Iraq, per incontrare e rendere omaggio ad un popolo che viene da 30 anni di violenze infernali. Voleva andarci Wojtyla nel 2000 ma non gli fu permesso. Ora arriva Bergoglio, accettando i rischi mozzafiato di una visita in una terra tormentata. «Non si può deludere un popolo due volte», ha detto a chi lo voleva frenare

di Lucio Brunelli

Il viaggio dei viaggi, nella terra dove tutto ebbe inizio: la Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate, regione dove la Genesi colloca il giardino dell’Eden, dove i nostri progenitori assaporarono il massimo della felicità e il massimo del dolore; e poi Ur dei Caldei, la città di Abramo, da cui l’anziano patriarca delle religioni monoteiste partì verso la terra promessa. Basterebbero questi pochi cenni di geografia biblica a immaginare l’emozione che un vescovo di Roma, ma come lui ogni cristiano, può provare nel recarsi nei luoghi scelti da Dio, all’inizio dei tempi, per manifestare all’uomo la sua premura e la sua giustizia. Perché l’Iraq è anche questo, anche se, lo sappiamo bene, non è solo questo.

La paradisiaca terra dell’Eden è diventata da trent’anni esatti (1991, prima guerra del Golfo) terra infernale di violenza militare, violenza politica, violenza religiosa. Voleva andarci, nell’anno 2000, papa Wojtyla a celebrare il santo giubileo ma non gli fu permesso. Ci prova adesso papa Francesco: “non si può deludere un popolo due volte”, ha spiegato all’udienza del mercoledì. Ci va esponendosi a rischi mozzafiato, che hanno spinto alcuni membri del seguito papale a fare testamento prima di partire, ed altri a fare una confessione generale, per essere pronti e a posto con il buon Dio nel caso in cui (facendo, i dovuti scongiuri) questo dovesse diventare l’ultimo viaggio.

Già i nomi e luoghi dell’itinerario del pellegrinaggio fanno tremare le vene nei polsi. Venerdì 5 marzo, Baghdad, messa nella cattedrale siro-cattolica che i terroristi di Al Kaida trasformarono in mattatoio il 31 ottobre 2010, vigilia di Ognissanti, 48 fedeli inermi uccisi con sventagliate di mitra e lancio di granate mentre assistevano alla messa, senza pietà, senza risparmiare una ragazzina di 11 anni, Adam di 3 anni, un neonato di soli 3 mesi e un bambino non nato, in grembo alla madre anche lei morta. Il processo diocesano di beatificazione appena concluso, 48 nuovi martiri di una delle comunità cristiane più antiche in terra d’Arabia: secondo una tradizione bimillenaria fu l’apostolo Tommaso, quello che poggiò le dita nel costato di Cristo, a portare il Vangelo fin qui. Il giorno successivo, sabato 6 marzo, destinazione Najaf, città sacra degli sciiti, dove lo aspetta il Grande Ayatollah Sayyd Alì Al -Sistani: l’Iraq, primo paese musulmano a maggioranza sciita visitato dal Papa. Dopo Najaf passaggio a Nassiriya (e per noi italiani non serve dire di più…) lungo la strada per Ur dei Caldei: nel mondo non c’è luogo simbolicamente più adatto per un incontro fraterno con gli esponenti delle altre religioni abramitiche.

Dialogo necessario, anche per isolare i violenti e proteggere la minoranza cristiana, più che dimezzata dalle violenze e dalla emigrazione negli ultimi trent’anni, aperti da una guerra che doveva portare nel paese solo democrazia e libertà. Dopo Ur, domenica 7 marzo, rotta al Nord, tra il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Mossul, altro nome che mette i brividi, capitale per tre anni delle bande nere dell’Isis, i cristiani cacciati dalle loro case, umiliati, costretti ad un esodo biblico spesso in compagnia della minoranza yazida, le cui donne erano state in molti casi assoggettate come schiave del sesso per i tagliagole islamisti. Il papa pregherà nella “piazza della chiesa” per le vittime della guerra; solo a Mosul, la battaglia per la liberazione della città nel 2017 lasciò sul terreno 40mila cadaveri. Francesco vedrà con i suoi occhi anche Qaraqosh: nelle chiese di questo villaggio dove si prega ancora in aramaico i miliziani hanno abbattuto le croci dai campanili, profanato sepolture di santi, fatto il tiro a segno con i crocifissi e le statue della Vergine. Oggi i cristiani caldei cercano faticosamente di tornare a popolare questi villaggi, vincendo la tentazione di lasciare il paese.

Raffica di emozioni dunque per il Papa che, primo leader mondiale, riprende a viaggiare dopo il lungo stop della pandemia. Ma anche e soprattutto gioia senza pari per i cristiani iracheni; sono loro che hanno voluto in spes contra spem questo pellegrinaggio, per ricevere consolazione, forza interiore e difesa politica dalla visita del vescovo di Roma. Coscienti dei rischi a cui andavano ad esporre loro e ancora di più il successore dell’apostolo Pietro: rischi per l’incolumità fisica e rischi di tipo morale, perché in caso di attentati di “rappresaglia” contro la folla innocente non mancheranno quanti faranno pesare sulla coscienza di Francesco questo sangue. Ne ha dolorosa coscienza anche il Papa. Ma pure cedere al ricatto della violenza, annullare ancora un viaggio papale, avrebbe significato per i fanatici e i terroristi un successo senza pari. Il papa, servus servorum Dei, non ha in fondo altra vocazione che quella di confermare i fratelli nella fede. Davvero non poteva deludere i figli di san Tommaso nell’antica Mesopotamia, il loro bisogno di vedere e toccare la vicinanza della Chiesa di Roma al loro martirio e alla loro speranza.

Nella foto un murales con l'abbraccio tra il minareto di Al-Hadba e il campanile Chiesa domenicana di NS Signora dell'Ora a Mossul.


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